Isole Lofoten in vista
Ancora totalmente increduli per essere veramente riusciti a prendere il
traghetto, troviamo i primi posti a sedere disponibili e ci lasciamo cadere
quasi a peso morto sulla morbida tela violacea che li ricopre, con gli zaini
ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone che non è ancora passato, ci
guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente felice, non so come
avremmo potuto reagire vedendo il traghetto partire senza di noi proprio
sotto gli occhi, condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il computer
di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà un paio
d'ore: è scritto tutto, la velocità della nave, quella del vento e la
direzione in cui spira, la posizione sulla carta geografica che stiamo
occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui v’è la striscia
colorata che si allunga mano a mano che la nave prosegue nella sua
traversata. Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, sono
troppo concentrato sul colpo di fortuna assurdo che ci è appena capitato.
Quando Davide esce per fare delle riprese con la videocamera, io non ho
nemmeno la forza di alzarmi, sono ancora scosso e preferisco rimanere seduto
a lasciare scaricare l'adrenalina spontaneamente, con le gambe che mi
tremano ancora leggermente. Un po’ di succo di frutta, l'ultimo rimasto,
toglie l'aridità della gola, la barretta di cioccolato mi ridà forza, fino a
che mi avventuro fuori anch’io: solo ora dopo parecchi minuti mi accorgo che
Bodø si sta allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano.
Il forte vento mi fa presto rientrare, per ora ho solo voglia di starmene
dentro tranquillo e rilassato in un ambiente caldo, finchè non mi sarò
completamente ristorato. Quando però le isole sono vicine, non posso
esimermi dal tornar fuori a vederle: sono veramente uno spettacolo unico.
Già da lontano si nota che le montagne hanno qualcosa di strano, insolito
per un'isola come siamo abituati a vederle: sembrano dei grossi denti che
spuntano direttamente dall'acqua, in gran parte irregolarmente frastagliati
ed aguzzi, quasi tutti piegati in un unica direzione. Come se ci sia un
dente del giudizio che li costringe a spostarsi lateralmente accalcandoli
gli uni contro gli altri, o come se ci sia una forza gravitazionale
invisibile sopra l'isola che attira irresistibilmente le cime delle montagne
tutte da una parte. Ci avvicinamo sempre di più al punto di attracco per la
nostra nave, osservando molto intensamente queste strane rocce e il paesino
che sta appena sotto di loro: è il tempo di visitare il paese delle
meraviglie.
Moskenes
Questo villaggio nella punta meridionale delle isole è il nostro punto di
arrivo, e non appena messo piede a terra lo sbalordimento non fa che
aumentare: la tipologia di montagna è identica alle Dolomiti dall'altezza di
circa duemila metri in su, esclusivamente erbose e totalmente spoglie di
vegetazione arborea o anche arbustiva, direttamente stagliate sull'oceano
senza terreni a fare da divisorio, tutte così curiosamente inclinate. Quello
che sembra un telo rosso è in bella vista vicino alla cima di una di queste
montagne, cerchiamo di capire cosa sia: una tenda? Un segnale di pericolo?
Non ci viene in mente nulla di convincente per spiegarlo. Ci concentriamo
meglio su ciò che abbiamo immediatamente davanti agli occhi: Moskenes è un
borgo turistico piccolissimo ed insignificante, con un ufficio informazioni
però efficiente: per queste isolette dimenticate dal mondo, la pesca ma
soprattutto il turismo significano tutto, per il sostentamento. Lì scopriamo
che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å, il paese monolettera che
è un po’ il punto di riferimento delle Lofoten meridionali. Ancora con gli
occhi non abituati a questo ben poco comune panorama insulare, ci sediamo
pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma non si vede nulla
arrivare. Siamo in pochissimi, la zona è di un silenzio quasi totale, rotto
solo dai rari commenti dei pochi turisti. Diverse automobili sono ferme
aspettando di entrare nel prossimo traghetto che le riporterà sulla
terraferma, ma nulla si muove. Arriva da lontano un anonimo furgoncino che
supera la piccola chiesetta bianca del paese, passa oltre a noi senza
fermarsi e parcheggia dietro il centro informazioni, sparendo dalla nostra
vista. Non ci facciamo molto caso, finchè Davide avanza un'ipotesi audace:
non sarà quello il nostro pullman? Presi dalla curiosità andiamo a
controllare, e l’intuizione si rivela azzeccata: grande poco più di un
furgoncino dei gelati ambulante, conta solo quattordici posti a sedere.
Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å, in soli dieci minuti di strada.
Verso Å
Saliamo divertiti su questo trabiccolo un po’ malandato ma onesto, per
goderci dieci minuti di strada assolutamente indimenticabili: lo spettacolo
che offrono queste isolette è impareggiabile, si conquista immediatamente il
primato di posto più bello al mondo che ho visitato finora, e ce ne vorrà
prima che qualche altro lo superi. Semplicemente meravigliose. Ovunque ci
giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte o incastrate in mezzo alle
rocce costiere su cui cresce solo della fragile erbetta o qualche raro
arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca terra
presente, barchette da pesca ormeggiate sotto le case, cespugli di fiori
circondati da innumerevoli laghetti, golfi che penetrano fin nei villaggi
grazie a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne di nuda roccia
appuntite e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi perfettamente con
la geometria dei villaggi e strapiombando sull'oceano immenso, un paesaggio
che sembra uscito dalla penna del più fantasioso scrittore di favole mai
esistito a questo mondo. I quadri nel museo di Oslo non erano semplice
fantasia. Penso subito che quando sarò pensionato vorrò trasferirmi qui a
vivere gli anni che mi restano. Ancora oggi ci sto pensando.
Il villaggio di Å è altrettanto meraviglioso: conta circa un centinaio di
abitanti, è quanto di più appartato e rustico si possa pensare. Nonostante
abbiano tutti l'accesso a Internet grazie alla galoppante diffusione della
tecnologia, questo vecchio e fiero borgo di casette rosse con i tetti grigi,
abitato da pescatori e innumerevoli gabbiani, resiste al passare del tempo
senza abbandonare le sue tradizioni nè un briciolo della sua storia, piccola
ma significativa. Ogni singolo angolo di strada è veramente pittoresco: c'è
un unico negozio di alimentari di legno bianco che utilizza ancora il
vecchio metodo delle etichette arancioni incollate con scritto sopra il
prezzo delle merci, il registratore di cassa è manuale come si usava tempo
fa. Un solo ristorante che dà diretto sul mare in una posizione strategica,
baracche di legno che fungono da officine attrezzi ormai trasformate in
musei, dei tralicci di legno sparsi per tutta l'isola, usati da secoli per
appendere gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far
asciugare le reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati
dall'impatto con questo mondo così lontano dalla nostra realtà quotidiana,
troviamo immediatamente l'ostello: il paese è così piccolo che è impossibile
avere problemi di orientamento. All'ufficio turistico, anche qui presente e
funzionante, non ci danno la pianta della città come chiunque si
aspetterebbe, bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di
metri di altezza, che basta a comprendere in un colpo solo tutto quello che
c'è da vedere.
Sistemate le formalità burocratiche, troviamo la nostra camera, in un
edificio poco distante: non abbiamo nemmeno bisogno di chiedere informazioni
all’autista, ci ha lasciati proprio lì davanti. Alloggeremo in un
carinissimo rettangolino di legno con quattro letti singoli, dalle
finestrelle quadrate, molto piccolo e spartano ma così accogliente e
pittoresco da far venire voglia di viverci, con la stufetta elettrica
vecchissimo stile che sta fuori dalla porta della camera pronta ad essere
usata in caso di necessità. Sorprendentemente non c’è quasi polvere sui
pavimenti nè sulle suppellettili, un ottimo regalo per noi che siamo
allergici. La camera è ancora completamente libera, gradiremmo proprio
essere da soli, a goderci quello splendido posticino, ma dovremo aspettare
la sera per scoprire se qualcuno avesse prenotato anche gli altri due letti.
Ci concediamo un'ottima birra comprata all'alimentari di fianco, questa
volta senza lucchetti nè limitazioni di alcun genere, gustandocela in ogni
sorso come simbolo di nuovamente ritrovata libertà.
Un centinaio di chilometri sopra il Circolo Polare Artico, ora siamo proprio
in un altro mondo.
Le botteghe
Non possiamo assolutamente non esplorare ogni angolo del paese, e cominciamo
subito dopo bevuto l’ultimo sorso di birra: una mezzoretta prima che
chiudano riusciamo a visitare tutti i musei del posto, se così si possono
chiamare viste le loro dimensioni. Ognuno in passato era adibito a una
funzione diversa: la casa del pescatore è talmente piccola che si fa fatica
a muoversi, le scale sono conformate nel modo usuale ma sono talmente ripide
da risultare quasi verticali come una scala a pioli, da cui sono pericolose
da salire e scendere senza aggrapparsi da qualche parte. I soffitti sono
bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici che
sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita
dei pescatori, abituati alle poche comodità e al molto lavoro. Su ogni
comodino si trovano soprammobili di porcellana, fotografie ricordo e
vecchissimi vasi di ceramica; nella cucina sono allineate tutta una serie di
bottiglie di vino tipico, un po’ impolverate, da annusare solamente. In
ognuna di quelle si sente un odore caratteristico, totalmente diverso dai
vini a cui siamo abituati. La tentazione di rimanere ad abitare per un po’
in quei piccoli gioiellini dismessi e provare com'era la vita dei pescatori
è veramente forte, ma dobbiamo accontentarci della camera del nostro
ostello, in cui potremo tralaltro soggiornare solo una notte per problemi
organizzativi: il giorno dopo ci sposteranno in un altro edificio. Poi c'è
la rimessa delle imbarcazioni e degli attrezzi per pescare, tutti
abbondantemente arrugginiti ma che meritano rispetto per tutto il pesce che
hanno estrapolato dal mare durante la loro vita lavorativa, pesce che ha
dato da mangiare e continua tutt'oggi a nutrire migliaia di persone. Sempre
lì si trovano delle impressionanti ed autentiche ossa di animali acquatici,
in particolare una vertebra di balena, identica per forma a quelle umane e
grossa come un televisore di medie dimensioni: da rimanere di stucco! Sapevo
che la balena può raggiungere e talvolta superare i trenta metri di
lunghezza, un record di dimensioni per un essere vivente a questo mondo, ma
vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte la
corrispondente umana, è impressionante!
Successivamente vengono la fabbrica di olio di fegato di merluzzo, la più
antica dell'intera Europa: le capsule che ingoiamo oggi per ridurre i nostri
livelli troppo alti di colesterolo arrivano da posti come questi. A pensarci
è strano, fa capire come tutto il mondo sia collegato insieme da una rete
invisibile di cui purtroppo spesso non ci rendiamo nemmeno conto, credendo
di bastare a noi stessi e di non aver bisogno di niente altro, di nessun
altra cultura diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte del mondo è
importante per dare il suo contributo al massiccio e poliedrico ingranaggio
della vita. Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le sue morse
arrugginite ma ancora funzionanti, i suoi utensili di ogni forma e
dimensione, dove si fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci e
le lampade ad olio indispensabili per illuminare con la loro luce fioca le
abitazioni nei duri mesi invernali. Infine il panificio, cosa per noi banale
essendo abituati ad averlo sotto casa, ma che alle isole Lofoten era un
importantissimo punto di riferimento per l'intero paese, una pietra
d’angolo. Il suo enorme forno annerito tace, ma chissà quanta farina ed
acqua saranno finiti in quella piccola grotta rovente, e chissà come era
buono il pane fatto qui. Questa era la vita che si faceva ad Å: semplice,
tranquilla, di pochissime pretese e altrettante poche aspettative, atta solo
a guadagnarsi da vivere onestamente e con dignità senza dare fastidio a
nessuno, e soprattutto senza distruggere l'ambiente. Una vita che può
apparire invidiabile o detestabile, ma indiscutibilmente autentica. Se penso
che anche questi gioiellini di isolette fuori dal mondo sono state coinvolte
loro malgrado nella seconda guerra mondiale, in cui l'unico obiettivo era
distruggere il più possibile per accaparrarsi una supremazia territoriale ed
economica, mi chiedo veramente a che livello possa arrivare l'idiozia di
alcuni esseri umani, sempre che si possano definire propriamente tali e non
si meritino l’appellativo di subumani, ipotesi più volte avanzata nel
tentativo di descriverli.
Tentiamo anche una veloce visita al museo dello stoccafisso, vero motore
dell'economia locale, esportato nel Vicentino dalle intere isole Lofoten
grazie ad un gemellaggio collettivo che garantisce continui scambi sia
commerciali che culturali: in quel di Vicenza poi lo stoccafisso viene
cucinato con la ricetta locale, alla Festa del Baccalà. Appena entrati
troneggia sulla parete un cartello che recita orgogliosamente "Noi parliamo
italiano!", ma proprio mentre stiamo entrando ed osserviamo un enorme
merluzzo dal fortissimo ed inconfondibile olezzo appeso al soffitto
sviscerato ed essiccato, veniamo informati che il museo sta chiudendo.
Abbiamo comunque visto abbastanza da ritenerci soddisfatti, del resto come
si può rimanere delusi in un luogo simile?
Oceano
Esaurita la parte culturale, è il momento di dedicarsi a quella
naturalistica. La baia del paese è una porta aperta sull’immenso Oceano
Atlantico, che si estende coprendo completamente un territorio così
tremendamente esteso da far fatica a comprenderlo. Seduto sull’ultimo
spruzzo di roccia prima del mare, osservo l’orizzonte in uno stato di pace
mentale assoluta, che forse mai ho vissuto così intensamente: il mare piatto
quasi come una tavola mi distende completamente lo spirito ed elimina
qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde con
l’oceano all’orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la
mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico
alternarsi delle debolissime onde amplifica questa sensazione, provo
un’attrazione enorme per quella sconfinata distesa d’acqua. Non un rumore,
né tantomeno quello delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte
lasciandoci ascoltare il silenzio della natura. Un silenzio assordante, da
far venire i brividi. Questo è quello per cui sono venuto qui, e ora che
l’ho raggiunto, non potrei desiderare di più. Quando mi riprendo
dall’estasi, decidiamo di salire sulle collinette di sassi e muschio che
sovrastano il borgo: da quella posizione potremo vedere tutto in modo ancora
più completo. In men che non si dica siamo in cima, in totale qualche decina
di metri più su, e da lì possiamo goderci una vista nuovamente emozionante.
Davanti a noi il paesino che dà sull'immenso Oceano Atlantico, alla nostra
sinistra le imponenti montagne che lasciano in ombra buona parte della zona,
sulla destra è appena visibile un campeggio in riva al mare, dietro di noi
un verdognolo lago circondato dai monti, sulle cui rive due persone stanno
facendo campeggio selvaggio in tenda, non senza suscitarci una punta
d'invidia. E davanti a noi, di nuovo, l’oceano. Il tempo è perfetto, il sole
ancora abbastanza alto nel cielo, possiamo concederci un’altra buona
mezz’ora di rilassamento totale e di meditazione. Quello che si pensa in
questi momenti non si può comunicare nelle pagine scritte di un diario.
Quello che si può comunicare è che quando capita di viverlo, si può
solamente essere grati a Madre Natura.
Pavel
Torniamo in ostello già rimpiangendo gli stupendi momenti appena vissuti, e
vediamo che non c'è ancora nessuno in camera nostra, sembra quasi che ce
l'abbiamo fatta a rimanere soli. Ormai sono le dieci, non verrà più nessuno,
pensiamo. Sogni svaniti: dovremo condividere la stanza con un israeliano
ventiseienne di nome Pavel, che arriva poco dopo di noi e da subito si
rivela estremamente loquace, perfino invadente. Non la smette nemmeno per un
secondo di farci domande di ogni tipo, con fare quasi sospetto. Scopriamo
poco dopo che è entrato in ostello clandestinamente, con il sacco a pelo che
è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi, e addirittura
senza pagare. Non sembra comunque ostile nei nostri confronti, nonostante il
suo comportamento poco ortodosso. Facciamo finta di niente ed aspettiamo che
esca, ma dopo poco il richiamo serale di Å si fa sentire anche per noi:
troviamo il nostro compare fuori dall'ostello che ci invita ad una
passeggiata (ma praticamente ci costringe ad andare con lui!), e inizia a
raccontarci le sue imprese di free climber, indicandoci la montagna di
fronte a noi e sostenendo di essere in grado di scalarla in venti minuti
senza aiuti di alcuna sorta, se escludiamo il gesso sulle mani per fare
maggiormente presa. Siamo abbastanza scettici su questa sua ultima
affermazione, nonostante il suo fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma
non lo diamo a vedere, facendo solo una battuta scherzosa “Al massimo,
duecento minuti!”. Poi parte a confrontare le temperature locali con quelle
israeliane, spiegandoci che a casa sua oggi sarebbe una giornata invernale.
Finisce col parlare di tutti gli italiani che ha incontrato in tutti gli
ostelli che ha visitato finora, dicendo di non aver mai visto un ostello
senza rappresentanti del Bel Paese. Tutto sommato è anche simpatico, ma
parla decisamente troppo e non ci lascia il tempo di replicare qualcosa
senza partire con un altro argomento. Continuiamo a camminare verso il
promontorio, sono quasi le undici di sera ma la luce è ancora praticamente
diurna, riusciamo perfino a fare qualche fotografia al mare che incontra il
cielo rosato, con qualche gabbiano superstite che lancia il suo grido in
mezzo al mare. La maggior parte di loro si è ormai ritirata sotto i tetti
delle rosse case, dove si raccolgono a decine non smettendo un solo secondo
di garrire. Beati loro che si godono questa meraviglia tutto l'anno gratis.
Un altro momento meditativo di grande intensità: i colori del tramonto
rendono ancora più bella la scena vissuta nel pomeriggio, sto altrettanto
zitto per assimilare il più possibile la magia di quel momento, ma complici
la logorrea di Pavel e il sonno optiamo tutti e due per andare a letto.
Tornati in camera scopriamo che anche il quarto posto è stato occupato, per
giunta da un italiano, che dopo averci salutato sparisce e non ne sapremo
più nulla. Il nostro Pavel ci chiede informazioni su una linea ferroviaria,
ricambiando poi dandoci in regalo una carta che mostra tutti gli ostelli
della Scandinavia, in gran parte da noi già conosciuti, ma che comprende
anche alcune novità che successivamente ci salveranno da situazioni
difficili. Quando il compare si stanca di farci domande indiscrete e noiose
possiamo finalmente dormire, pregustando già la giornata successiva, che
abbiamo già un'idea precisa di come passare.
In bicicletta
Svegliarsi in quella stanzetta di legno minuscola, con la luce del sole che
filtra timidamente dalle finestre chiuse solo con tendine semitrasparenti, è
presagio di una giornata grandiosa. Non approfittare delle rare giornate di
pieno sole che queste piccole zolle di terra ci stanno offrendo così
generosamente è quasi un delitto. Completiamo velocemente il trasferimento
di camera, giusto in tempo per riuscire a sfuggire al logorroico Pavel che
si sta svegliando proprio in quel momento: il nuovo alloggio è molto più
grande, ha il lavandino incorporato e il bagno vicinissimo, ma i materassi
sono praticamente inesistenti: degli strati di gommapiuma poco più spessi di
stuoie da spiaggia, cosicchè la schiena poggia quasi direttamente sulle dure
doghe, decisamente scomodo ma tutto sommato sopportabile. La camera è
quadrupla ma per ora siamo solo noi, magari almeno stavolta saremo graziati
e non avremo compagni di stanza. Ma a questo ci penseremo solo la sera. Per
la nostra giornata di esplorazioni l'ostello propone un servizio di noleggio
biciclette per ventiquattr'ore, più che sufficienti a farsi un giro
panoramico eccezionale. La parte sud delle Lofoten è infatti
indiscutibilmente la più attraente e la migliore da percorrere miglio dopo
miglio in sella ad una bicicletta. Al prezzo di poco più di venti euro, non
economico ma sicuramente sostenibile, ci aggiudichiamo i nostri mezzi: sono
delle scassate e apparentemente poco affidabili biciclette da città,
probabilmente con molte migliaia di chilometri alle spalle. Sembrano proprio
vecchie e malandate, ma non possiamo pretendere troppo, questo è quello che
abbiamo. E poi l'entusiasmo di girare per le isole in bici ci fa presto
dimenticare dei dettagli. Io non vado in bicicletta da parecchi anni e non
sono mai stato una cima, Davide è un po’ più abituato a pedalare ma anche
lui a digiuno da qualche anno: stiamo tentando l'avventura in condizioni di
sottoallenamento decisamente pesante. Riprendiamo ad andare in bici
nell'ultimo posto al mondo che ci saremmo aspettati fino a poco tempo prima,
la situazione ha un che di paradossale.
La selezione dei mezzi è accurata: scartate le bici che frenano poco, quelle
con i cambi di velocità troppo arrugginiti o addirittura assenti, quelle
apparentemente un po’ sbilanciate, non troviamo di meglio che due biciclette
costruite assemblando parti di altre bici diverse tra loro, come testimonia
il cambio di velocità la cui levetta segna ben sette rapporti, quando in
realtà le ruote dentate di cui dispongono sono solo due o tre. Partiamo
lentamente ancora ignari di ciò che ci aspetta, freschi di energie…ma per
poco. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e prive di
buche, sono estremamente tortuose, si tratta di saliscendi continui e
abbastanza ripidi, non durano molto ma per gambe poco allenate sono
distruttivi. Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo
ancora tutta la meravigliosa scena dell'andata, ma con la differenza che
stavolta stiamo soffrendo non poco, io in particolare, per far andare quei
rottami totalmente inadatti a un percorso simile su per quelle salite che
paiono interminabili. Un attimo dopo si riprende velocità, giù per discese
che finiscono quasi subito, lasciando ben poco riposo alle gambe. Il
percorso è veramente massacrante, un po’ mi pento di aver spinto decisamente
in direzione della gita in bicicletta, ma presto mi convinco che non si
poteva non provarla, l’avremmo rimpianta troppo. Così stringo i denti e
continuo a faticare su quella bicicletta con la mia penosa andatura,
maledicendo ogni salita e benedicendo ogni discesa, consapevole che prima o
poi arriverò ad una qualche destinazione. Mi distraggo cercando di non
pensare che sono su una bicicletta, e in qualche modo continuo con la mia
stentata pedalata.
La galleria
Nonostante la fatica e l’andatura a dir poco stentata, in men che non si
dica percorriamo i quattro chilometri e mezzo che ci separano da Moskenes,
il paese del nostro primo arrivo: ora è il momento di proseguire diritto
verso altre mete, curiosissimi di vedere come siano queste isole in ogni
loro parte. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un chilometro,
come segnala il cartello posto all’entrata. A nessuno dei due è mai capitato
di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci troppo a lungo.
Le automobili che sfrecciano in galleria vengono preannunciate da un rombo
fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di linea proprio di fianco a
noi, rombo che poi rivela quasi sempre una semplice utilitaria lanciata a
non più di sessanta chilometri l'ora, fatta eccezione per un solitario
camion che crea una folata di vento abbastanza forte ma non così forte da
farci sbilanciare. Un po’ di paura di sbandare per gli spostamenti d'aria
dei mezzi che ci passavano di fianco c'è, visto anche il bordo della strada
molto irregolare e ciottolato, vicinissimo alla linea di margine della
strada. Per fortuna non succede alcun incidente ed usciamo indenni: quando
rivediamo la luce del sole che aumenta sempre di più all'avvicinarci
dell'uscita abbiamo davanti un'altra scena mirabolante. Il mare è in un
bagno di sole, è ben visibile davanti a noi uno degli innumerevoli ponti che
collegano tra loro le decine di isolette, con il suo aggraziato dosso
sull'acqua. Nemmeno una nuvola sparuta in cielo e catene montuose sullo
sfondo a perdita d'occhio, mostri emersi direttamente dall'oceano. Trovare
questo clima alle Lofoten, col mare calmissimo, è una vera rarità. Ci
accorgiamo solo ora della presenza di una pista ciclabile sulla destra,
costruita apposta per non dover attraversare direttamente la galleria con le
biciclette. Ma tutto sommato ci siamo divertiti molto di più a passarci in
mezzo! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la pista ciclabile e
imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva sinuosa che aspetta
solo di essere solcata.
Reine
Le isole sono unite tra loro in modo così apparentemente precario da
sembrare catene umane, tanto sono piccole: alcune sono niente più di scogli,
su cui i ponti fanno presa da un lato per poi ripartire dall’altra parte
delle rocce unendosi ad uno scoglio più grande, in uno spazio di poche
decine di metri quadrati. In lontananza si vede chiaramente la cittadina di
Reine, pochi chilometri più in là, sul più grande di questi “scogli”
rocciosi con solo qualche rara collinetta erbosa. Le biciclette scendono
veloci per l'inerzia della discesa permettendomi un breve riposo dopo la
prolungata salita per arrivare allo svincolo, e presto siamo in quest'altro
borghetto appena più grande di quello da cui proveniamo. Qui c’è un
supermercato (si fa per dire), strade decisamente più larghe che ci
permettono un buon margine di sicurezza per non farci investire dalle poche
auto circolanti, e bancomat per il prelievo automatico delle tanto
necessarie corone, che ci fa molto comodo per rifornirci in un momento di
scarsa liquidità. Scopriamo però subito di essere rimasti quasi al verde: la
macchina si rifiuta categoricamente di darmi anche la cifra minima
prelevabile dalla mia carta. Pensiamo ad un guasto della carta prepagata, ma
calcolando con più calma le spese e i prelievi finora effettuati, scopriamo
che sono rimasto con poco più di dieci euro caricati, mentre Davide ne ha
solo qualche decina in più! Alla faccia! Si fa presto a spendere fior di
soldi qui in Scandinavia, nonostante le nostre spese siano ridotte quasi
all’osso. Risolto il problema e dopo una breve sosta per riprendere fiato su
una panchina isolata in mezzo a un ghiaioso cortile, ripartiamo alla volta
di Hamnoy, la prossima tappa ancora un paio di chilometri più in là. Qui ci
godiamo lo scenario più bello dell’intero arcipelago! I ponti si fanno
innumerevoli, alcuni di cemento a più campate, altri dei semplici ammassi di
roccia levigata sulla cima per permettere alle auto di passare, ma lasciata
grezza e irregolare sulle pareti laterali. Non sono ovviamente disposti su
una linea retta, ma a zig zag, e non potrebbe essere altrimenti data la
natura tremendamente frastagliata ed irregolare di questi isolotti. Sui
ponti spesso le automobili devono alternarsi da una parte e dall'altra per
poter passare entrambe, da cui sono quasi sempre regolati da semaforo:
nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare lunghe attese per
passare da un appezzamento di terra all’altro. Il dedalo di vie di
comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, la fatica si
attenua notevolmente schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e
roccia in mezzo all’oceano. In mezzo all'acqua scorgiamo degli strani
recinti circolari di ferro verniciato di scuro, come delle piccole arene
sospese, ma senza pavimento: c’è solo la ringhiera, all’interno c’è
unicamente acqua, esattamente come fuori. Non si capisce bene come faccia a
stare in piedi una struttura simile, né tantomeno riusciamo ad immaginare a
cosa serva: forse sono punti di pesca per l'attacco delle reti, o chissà
cos'altro. Deve per forza avere a che fare con la pesca dato che è
praticamente l’unica attività che si pratica qui. Vediamo ancora riuniti
numerosissimi i caratteristici tralicci di legno, mentre le montagne, sempre
senza vegetazione o popolate da pochi fili d’erba stentata e fragili
licheni, formano delle strette gole e insenature raggiunte dall'acqua in
ogni punto. Solo in alcuni punti le pareti rocciose degradano in una gola a
forma di U, che per quanto bassa non lascia però intravedere nulla al di là
di essa. Alcune montagne hanno persino delle tracce di neve nelle zone che
rimangono perennemente in ombra! La neve in estate su una montagna a livello
del mare è uno spettacolo che, se non fosse straordinariamente suggestivo,
sarebbe quasi grottesco. Questi giganti di roccia cingono i villaggi come
delle muraglie insuperabili, quasi a proteggerli dalle intemperie del mondo
esterno, che potrebbe spazzare via queste casette delle favole così
facilmente se volesse.
Hamnoy
Man mano che passiamo da un ponte all'altro, fermandoci sempre più spesso
per la stanchezza che ormai la bellezza dei paesaggi non può più sopprimere
a sufficienza, arriviamo alla cittadina di Hamnoy, dislocata in modo a dir
poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci reclamano qualcosa di
commestibile, per cui cerchiamo un posto tranquillo dove poterci stravaccare
a guardarci attorno in pace. Dopo un po’ di tentativi andati a vuoto ci
fermiamo in una zona completamente rocciosa di fianco alla quale sono
infisse una serie di case su palafitte, incastonate perfettamente nelle
rocce lambite dall’acqua. Sono tutte case perennemente lasciate in affitto e
al momento paiono disabitate, per cui possiamo permetterci di soggiornare
fuori senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che
intravediamo nell'acqua bassa della costa sono un'infinità, così come sono
numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente dicendosi chissà che
cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Il sole è quasi a
perpendicolo sopra di noi, mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in
quelle acque per rinfrescarmi un po’, idea subito accantonata non tanto per
la mancanza del costume ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe
succedere una volta uscito ed esposto al vento fresco ed incessante che ci
sferza vigoroso. Mi limito a lavarmi le mani con l’acqua del mare, cercando
di pulirle da quella specie di colla di cui è sporco il coprimanubrio
sinistro e che mi sta tormentando da quanto è appiccicaticcio. Il tempo
passa rapido mentre osserviamo ogni angolo di isola, cercando qualche
sorpresa che ancora non avessimo notato. Non troviamo più nulla di
eclatante, ma le Lofoten in sé sono già sufficienti per dire di aver passato
una giornata veramente fuori dal comune!
Moskenes
Ormai ripresi dalla fatica della pedalata, ma non dai dolori alle gambe che
sentiamo dopo i quasi venti chilometri percorsi, torniamo indietro per non
rischiare di tardare troppo la sera. Siamo molto dispiaciuti dal dovercene
già andare, ma torniamo comunque pienamente soddisfatti, è andato tutto
liscio come sperato. Anche stavolta, come successe al Preikestolen, il
ritorno è duro tanto quanto l'andata: tutti i saliscendi si sono
semplicemente invertiti, per cui conservano intatta la loro difficoltà. Non
basta certo un'oretta scarsa seduti su una panchina per rimettersi come
nuovi, da cui riprendo a soffrire come prima. Sono così stanco che percorro
praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi, le gambe non
mi reggono quasi più non appena c'è da forzare un po’ sui pedali per
superare una pendenza anche lieve. Sono scandaloso, lo so, ma non so cosa
farci. Questa volta evitiamo le galleria prendendo le sterrate strade
alternative, fiancheggiate da alberelli e percorse solo da qualche raro
turista appiedato, per poi fare una sosta a Moskenes. Si rivela essere un
buco più piccolo ancora di Å, con la chiesetta che funge da punto di
riferimento alta solo pochi metri più del resto delle costruzioni.
L’attracco per il traghetto conta ben otto corsie per le automobili, di cui
tutte tranne una sono destinate ai veicoli e alle persone che tornano a Bodø,
mentre la rimanente porta all’isoletta di Vadøy, poco più a sud. L'ufficio
informazioni vende magliette delle Lofoten raffiguranti il sole di
mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle strane bustine di stoccafissi
rigidi come il legno, così asciugati da contenere ben ottanta grammi su
cento di proteine pure. Molto nutriente e soprattutto molto sano! Una
prelibatezza che in più protegge dalle diffuse malattie cardiache.
All’esterno invece c’è una bacheca con esposti gli orari dei bus e dei
traghetti, unico luogo in cui possiamo avere informazioni, dato che di avere
volantini da mettersi in tasca non se ne parla nemmeno. Informatici bene su
come muoverci in giro per l'isola con il trasporto pubblico, rimane solo da
completare il giro del promontorio. Passiamo lentamente in mezzo alle
onnipresenti travi di legno fittamente intrecciate, alcune delle quali
recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e
probabilmente inutilizzabile.
Riprese ancora un po’ di forze, rifacciamo riprendiamo la via per Å. Ormai
scendo praticamente per forza d'inerzia, non pedalo quasi più. Sono su un
celerifero del 1800, quelli senza pedali, più che su una bici. Un memorabile
scambio di battute tra me e Davide, durante una salita faticosa in cui
stranamente sono rimasto in sella e abbiamo un fiatone pazzesco, è
emblematico: "Ma come fanno quelli che fanno il giro d'Italia?" "Si dopano".
"E quelli che non si dopano?" "Arrivano ultimi". Nella concitazione del
momento queste poche frasi mi fanno scoppiare a ridere fragorosamente.
Presto finisce questa agonia e stiamo nuovamente percorrendo le altalenanti
stradine che conducono dritte al nostro alloggio.
Missione
Torniamo alle cinque e un quarto, scendendo lentamente nel centro del paese
e posizionando direttamente le bici nei loro sostegni, non volendo averci
più a che fare nemmeno per un istante più del necessario. Siamo distrutti
dalla fatica ma largamente soddisfatti, e ritorniamo in camera per
rilassarci il più possibile. Siamo ancora soli e lo rimarremo, nessun
turista prenderà posto negli altri due letti quella notte. Possiamo
finalmente lavarci e mangiare qualcosa. La sera siamo troppo stanchi per
uscire, e passiamo il tempo a raccontarci del più e del meno e cercando di
calcolare il calore irradiato dalla lampadina sopra di noi. Trovata la
metratura cubica della stanza, calcolata partendo dalla capacità nota in
litri dei nostri zaini, e il calore specifico prodotto dalla lampadina,
possiamo dedurre a livello teorico che la nostra lampadina scalda di 6 gradi
la temperatura della stanza ogni ora! Insomma un ottimo modo per far passare
il tempo fondendosi il cervello inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello
trovato all’ultimo minuto e non senza una lunga ricerca nella piccola
cittadina di Svolvær, la capitale amministrativa delle Lofoten nonché città
più antica del Circolo Polare Artico risalente all’epoca dei primi
Vichinghi. Situata nella parte centrale della catena insulare e curiosamente
gemellata con la nostrana città di Ancona, la preferiremo snobbando la ben
più visitata turisticamente Stamsund. La ragione di questo diversivo è che a
pochi chilometri da Svolvær si trova un piccolo ed insignificante villaggio
di nome Kabelvåg, dove diverse decine di anni fa mio padre in viaggio per la
Scandinavia come lo siamo noi ora incontrò una sua corrispondente
radioamatrice come lui, di nome Laila, della quale non ha più notizie da
circa una trentina d'anni. Tocca a noi ora tentare di riallacciare i
contatti persi con la signora che sarebbe ormai settantenne, e coi figli
Lars ed Erik ormai quarantenni, ammesso di trovarli e soprattutto di
trovarli vivi. Il giorno successivo prenderemo l'autobus per Svolvær,
preparandoci ad una solerte ricerca: tutto infatti in quel paesino è ormai
cambiato, sia la geografia che le persone. Scivoliamo sotto il piumone,
pensando alla giornata a venire e cercando di distogliere le percezioni
dalla scomodità del letto, fino a passare nel misterioso ed interminabile
mondo dei sogni, che oggi abbiamo potuto sondare senza doverci addormentare.
Svolvær
Come prevedibile, mi sveglio con un marcato dolore alla schiena, quel
dannato materasso seppur imbottito con un piumone in più rubato al vicino
letto vuoto non ha risparmiato le mie vertebre già non perfettamente sane.
La partenza è fissata per le nove: il nostro pullman impiegherà circa tre
ore e mezza per raggiungere la cosiddetta capitale amministrativa, che conta
solamente 4.500 abitanti ma ha addirittura un aeroporto, tralaltro già
presente ai tempi di mio padre.
Arriviamo con largo anticipo alla stazione dei bus, un enorme spiazzo
asfaltato vuoto con un baracchino che funge da punto informazioni e
biglietti, munito anch’esso di toilette a pagamento. Un sacco della
spazzatura smembrato, probabilmente opera di qualche cane o gatto in cerca
di cibo, ha riversato tutto il suo contenuto nella pensilina del bus, ma
nessuno dei pochi presenti si cura di raccogliere i rifiuti, preoccupati
tutti solamente di ripararsi dal freddo penetrante che si insinua in ogni
angolo di pelle lasciato scoperto dalle giacche. Il cielo è molto più
nuvoloso di ieri, oggi la gita in bicicletta sarebbe impensabile, troppo
rischio di pioggia e soprattutto troppo freddo, senza l’ausilio del prezioso
sole. Pagata la salata tariffa per il trasporto, ripercorriamo per
l'ennesima volta la strada per Moskenes che ormai conosciamo a memoria, di
aspetto lievemente mutato dal cielo coperto. Purtroppo è tempo di andarsene
dal paese delle meraviglie.
Mentre costeggiamo l'oceano, finalmente liberi dal freddo e dal vento nel
caldo ambiente del grosso pullman turistico, vediamo tantissime altre
ringhiere circolari sospese come per magia in mezzo al mare, ma non un paio
isolate, bensì in file di decine, tutte allineate. Di nuovo proviamo a
immaginare a cosa possano servire e soprattutto come siano state costruite,
ma non ci viene in mente nessuna spiegazione soddisfacente, da cui
desistiamo e le rimuoviamo temporaneamente dalla memoria, riservando la
curiosità a quando potremo informarci. Man mano che proseguiamo, la
geografia e l'aspetto delle isole cambia radicalmente: le montagne
cominciano a riempirsi di vegetazione superiore a muschi e licheni, il
paesaggio da fiabesco si fa sempre più ordinario e più continentale, se
vogliamo anche lievemente monotono, specialmente una volta abbandonata la
costa per ripiegare nell'entroterra. I cartelli stradali a fondo verde, che
qui non significano presenza di autostrade ma di strade ordinarie
extraurbane, continuano a segnalare Svolvær lontano, lungo quelle strisce
perfettamente asfaltate e vuote o quasi per decine e decine di chilometri.
Aiuto il tempo a passare più in fretta rimettendo ancora una volta gli
auricolari nelle orecchie e facendo scorrere un po’ di tracce nel lettore.
Cerco sempre di conciliarle col paesaggio, scegliendo solo quelle più
malinconiche ed evocative per accoppiarle alla perfezione con la natura e le
condizioni atmosferiche. Le chitarre decadenti e tristi fanno tornare un po’
di nostalgia per il ridente paesino appena abbandonato, finchè un brano più
deciso e potente risolleva il morale e mi ricorda che sto andando in
missione, a cercare come un segugio questi vecchi amici con i quali mio
padre tanto terrebbe a riprendere i contatti. Ce la dovrò mettere tutta per
non deluderlo, anche se non mi è stato consegnato un ordine tassativo, bensì
un semplice invito a fare questa ricerca se avessimo avuto tempo e voglia,
non insistendo oltre nel caso che Kabelvåg fosse risultato difficilmente
raggiungibile o lo fosse stato a costo una perdita di tempo non
indifferente. Ma Kabelvåg è a due passi dalla nostra via, e io prendo
l’incarico molto seriamente: quando mai mi ricapiterà di viaggiare in un
posto così remoto potendo trovare delle persone che tanto tempo fa hanno
avuto contatti con i miei parenti?
Mentre mi faccio tutte queste domande e mi pongo i miei propositi, è già ora
di prepararsi: la piccola cittadina di Svolvær, anch'essa sulla costa e
circondata da montagne stavolta verdi che formano un cerchio quasi completo,
è segnalata a pochi chilometri dai cartelli stradali. Attraversiamo proprio
Kabelvåg, che si trova esattamente sulla strada principale, cercando di
carpire già qualche informazione, ma l'autobus passa senza fermarsi e non
abbiamo modo di vedere quasi nulla, se non i lunghi cespugli di fiori viola
che riempiono ogni angolo libero ai lati della strada.
L'arrivo a Svolvær è un po’ approssimativo: non sappiamo esattamente dove
scendere, nè dove sia questa fantomatica piazza in cui dovrebbe trovarsi il
nostro ostello, nè dove sia il punto informazioni, prima cosa da cercare in
ogni posto nuovo che si raggiunge. Scendiamo alla fermata che ci sembra più
centrale, riconoscendo quella che sembrava una piazzetta, scoprendo poi di
aver mancato la fermata giusta: vagando per una decina di minuti in
direzione stavolta indovinata, il punto informazioni finalmente appare, in
una piazza molto più grande che dà direttamente sul mare. Un di punto di
partenza per i traghetti appositi per la visita dei fiordi lofoteniani è
presidiato da delle giovani bigliettaie in borghese che si guardano attorno
speranzose di catturare qualche nuovo cliente, le bancarelle sono anche qui
onnipresenti e gli uffici di cambio e banche in presenza consistente ci
ricordano che siamo veramente in una piccola capitale. Preso il nostro
numerino dalla macchinetta distributrice di turni, identiche a quelle che si
vedono al supermercato, la ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega dove
dobbiamo andare: lontanissimo da dove siamo adesso. Un interminabile vialone
da percorrere a piedi prima di voltare a destra per attraversare un quasi
altrettanto lungo ponte curvo, ma non in senso orizzontale, bensì in
verticale: è piegato come da una forza invisibile lungo un'accentuata forma
a volta che deve sicuramente essere stata più difficile da costruire
rispetto ad un ponte piatto. Questa enorme lingua di asfalto, che assicura
vertigini ai deboli d’orecchio essendo altissimo sul mare, sovrasta i moli
dove le navi da container ancora chiuse nei cantieri aspettano di essere
varate. Si intravedono in lontananza le numerose industrie ittiche che
mandano avanti tutto il paese qui come nel resto delle isole, le montagne
stavolta lasciano un po’ di terra tra loro e il mare, non più gettandosi a
capofitto in acqua con la loro vertiginosa pendenza. Superata la parte in
salita del ponte, mentre sudiamo abbondantemente con addosso i vestiti
pesanti e gli zaini più pesanti ancora, la discesa sembra non finire mai:
camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono sempre uguali.
Possiamo renderci conto chiaramente della natura della zona in cui andremo
ad alloggiare: è un porto industriale, con serbatoi per la benzina e il
gasolio. Decine di pescherecci sono ormeggiati, alternati a qualche nave
mercantile, con un olezzo di pesce penetrante che si sente dappertutto.
Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora per qualche
centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un
malandato edificio squadrato e scrostato della vernice. L’unica nota
positiva è che contiene una camera a due solo per noi: per il resto il
panorama che si vede dalla finestra è orrendo, in primissimo piano c'è una
cisterna della Esso, non possiamo aprire la finestra senza che la stanza
venga istantaneamente invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco
e gasolio bruciato. I letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli,
capelli e forfora, o chissà quale altra sporcizia non meglio identificabile,
che evitiamo rigorosamente di toccare. I bagni sono in fondo alle docce, con
ingresso unico, per cui se uno si sta lavando tutto l'ostello deve aspettare
per andare a fare i suoi bisogni, un modo di progettare le stanze
decisamente poco logico. Dobbiamo rimanere lì due notti soltanto, per
fortuna. Le lenzuola ci verranno recapitate più tardi dal custode che ora
non vediamo da nessuna parte, senza di esse non osiamo nemmeno sederci su
quei letti sporchi all'inverosimile, quindi lasciamo la stanza per cercare
gli orari dei bus che fermano a Kabelvåg.
Kabelvåg
Il paese è piccolissimo e non sembra disporre di edifici pubblici
significativi, a parte un ufficio informazioni dipinto di giallino sbiadito,
con numerose bandiere di varie nazioni appese al suo esterno. Ha l’aria di
essere quello l’unico ostello che il paese ospita, ma che stando alle nostre
informazioni e alle telefonate effettuate dovrebbe aver chiuso proprio ieri.
Il paese, nonostante sia un luogo insignificante e pochissimo abitato, ha un
aspetto comunque moderno, ben curato, ci sono un ristorante ed addirittura
un punto di prelievo automatico soldi. Prima di raggiungere il centro vero e
proprio cerchiamo il cognome della donna sui campanelli e le cassette della
posta di tutte le case che incontriamo, tutte rigorosamente di legno e
verniciate con colori vivaci, ma senza successo: sono pochi i campanelli che
recano un nome, e quei pochi che leggiamo sono del tutto diversi da ciò che
cerchiamo. Oltretutto mio padre non si ricorda nulla nè della via in cui si
trovava la casa nè tantomeno della casa stessa, comprensibile dopo tutti
questi anni, quindi siamo completamente soli nella nostra ricerca. In centro
proviamo per prima cosa a chiedere all'ufficio informazioni dove sia il
municipio in cui trovare l'elenco dei residenti. In attesa che qualcuno ci
dia retta, notiamo diverse chiavi appese al muro, deducendo che quello è
proprio il fantomatico ed unico ostello di Kabelvåg. Stranamente alcune
chiavi mancano e ci chiediamo se veramente sia tutto pieno lì, ma non
abbiamo il tempo di pensarci ulteriormente: il giovane commesso biondo posa
il telefono e ci rivolge finalmente la parola. Dopo la domanda che gli
faccio mi guarda con aria un po’ spaesata, sembra non capire esattamente
cosa intendo, forse per via della mia richiesta un po’ tentennante ed
incerta. Oltretutto non sappiamo quale sia la parola inglese che sta per
municipio, da cui facciamo un po’ fatica ad intenderci. Sembra che siamo
capitati nel luogo sbagliato e che lì non ne sappiano nulla, o forse non c’è
nemmeno un municipio qui a Kabelvåg, da cui desistiamo e tentiamo la fortuna
nel ristorante della piazza a fianco: essendo l'unico in tutto il paese,
sarà sicuramente frequentato da tutti, e sarà quindi probabile trovare
qualcuno che abbia almeno sentito parlare di lei, o che meglio ancora la
conosca di persona. Il locale è ottimamente arredato e nulla lascia
intendere che ci troviamo in uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo
informazioni al barista, che si mostra molto gentile e disponibile radunando
tutto il personale e cercando qualcuno che conosca quel nome. Le voci dei
ristoratori si alternano tra loro incerte, le poche informazioni che
riceviamo sono piuttosto contraddittorie e non molto chiare: l'unica che
troviamo incoraggiante è che potrebbe essersi trasferita vent'anni fa nella
vicina isoletta di Skrova. Non è nemmeno troppo distante, si può raggiungere
con tre quarti d’ora di traghetto, ma nessuno sembra realmente convinto di
quello che sta dicendo a proposito dei signori Wilhelmsen, ci invitano solo
a provare, già che siamo qui. Ringraziamo tutti per la loro cortesia e
disponibilità, ed usciamo dal ristorante un po’ scoraggiati ma non ancora
vinti.
Incerti sul da farsi, tentiamo altre strade, trovando quello che sembra un
piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio se conosca l'ubicazione
del municipio del paese, cercando di farci capire con qualche espressione
alternativa come “inhabitants list” o “administration”, ma anche lui ci
indirizza all'ufficio informazioni appena visitato: in questo paesino
evidentemente non c’è altro di importante. Decidiamo di tentare il tutto e
per tutto, e di chiedere al commesso dell’ufficio direttamente il nome della
donna, sperando che qualcuno la conosca. Il ragazzo stavolta si mostra molto
più disponibile, anche se troppo giovane per poterci aiutare, avrà si e no
trent'anni. Ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un
uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è
ragionevole: ringraziamo e ci congediamo, nell'oretta che abbiamo da
aspettare andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in
pullman, che scopriamo poi essere la seconda chiesa in legno più grande
della Norvegia. Esternamente colpisce molto lo sguardo, verniciata di
giallino e marrone scuro, di aspetto squadrato ed austero, domina una
vecchia baia ormai prosciugata dal mare e tappezzata di questi strani fiori
viola che qui a Kabelvåg sono particolarmente numerosi. L'ingresso si paga
venti corone ma non le vale effettivamente, dentro c'è poco da vedere.
Usciamo presto, e Davide propone di cercare il camposanto: non è detto che
la nostra Laila non si trovi lì. Lo troviamo subito, a pochi metri dalla
chiesa, in mezzo ad un boschetto: come cimitero è decisamente grande per un
paese così piccolo, ci dividiamo a cercare il nome sulle tombe, uno sull'ala
sinistra e uno su quella destra, ma pur setacciandolo da cima a fondo
troviamo solo un omonimia di cognome. Meglio così, almeno significa che la
signora, seppur irreperibile, è viva. A meno che non sia stata sepolta
altrove…
Torniamo in paese, ormai l'ora è passata e possiamo ritentare per l'ultima
volta l'ufficio informazioni: questa volta ci sono due uomini, uno
dall'aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i ricciolini a cascata su
tutto il capo, l'altro dall'aspetto più giovanile, ma è quest'ultimo colui
che ci viene presentato come l'esperto del luogo. Purtroppo tutti e due non
conoscono nessuno con quel nome, l'uomo apparentemente più giovane prova
anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio informazioni di
qualche altro posto vicino o forse a qualche suo amico esperto della gente
del luogo. Li sentiamo parlare nella loro lingua captando chiaramente solo i
due nomi pronunciati, di lei e del marito Knut, che però cadono nel vuoto:
nessuna informazione, nessun ricordo. Ci rassegniamo temporaneamente e ci
sediamo in mezzo alla piazza a mangiare qualcosa, guardandoci attorno per
scorgere qualche eventuale anziano che stesse passeggiando e a cui possiamo
fare qualche domanda, confidando in qualche suo ricordo di tanti anni fa, ma
non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa nessuno che possa aiutarci, solo
qualche turista dall'aria distratta che passeggia per le anonime viuzze e
presto scompare dietro l'angolo di qualche casa per non tornare più. L’unica
signora che riusciamo ad individuare per il nostro scopo viene abbrancata da
un gentile paesano che si offre di portarle le borse della spesa, prima che
potessimo raggiungerla. I due iniziano a chiacchierare rumorosamente, da cui
non ci sembra il caso di disturbare. Nisba. Oggi la fortuna sembra proprio
averci voltato le spalle.
Attacco aereo
Tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili panini con la mortadella,
richiusa con lo scotch per non farla andare a male troppo velocemente, e
frugando nello zaino mi accorgo di avere ancora qualche cracker di riso che
mi sono portato da casa per fronteggiare i momenti di fame acuta non
soddisfabile da un vero pasto. Ne sono rimasti tre pacchetti quasi
completamente sbriciolati. Dopo i canonici panini Davide ha ancora fame e si
allontana qualche minuto a comprare un hot dog al vicino spaccio, io
d'impulso penso di offrire i crackers come cibo ai numerosi uccelli che
passeggiano per la piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole
offerte loro da qualche generoso passante. Apro un pacchetto, stritolandolo
prima tra le mani per polverizzare bene il contenuto, e incautamente ne
getto un po’ a un paio di piccioni che mi stanno passando proprio ora vicino
alle gambe: che idea malsana! In un attimo attiro una quantità
impressionante di pennuti di ogni tipo, inclusi gli onnipresenti gabbiani,
che in pochissimi secondi appaiono dal nulla e si fiondano sul cibo
litigando e beccandosi tra loro. I volatili presi da frenesia alimentare si
ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono temerariamente sopra,
scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di merende, che tocca
l’apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un sacchetto di altri
crackers salati lasciato imprudentemente aperto sul tavolo, scende in
picchiata e fa razzia del cibo prima che possiamo avvicinarci per
recuperarlo.
Davide mi guarda con aria indescrivibilmente seccata, vorrebbe uccidermi per
quello che ho combinato, ma io non riesco a far altro che ridere. Non
riusciamo a scacciare tutti quegli uccelli, hanno troppa fame per andarsene,
e anche quando hanno finito di beccare anche l'ultima briciola rimasta non
se ne vogliono andare, riconoscendomi come quello che li ha foraggiati prima
e seguendomi nei miei spostamenti ovunque mi trasferisca. Siamo quindi
costretti a traslocare di tavolo, mentre io uso gli altri pacchetti di
cracker come esca lanciata sempre più lontano per attirarli nella parte
opposta della piazza. Con questo simpatico diversivo si conclude la nostra
infruttuosa missione a Kabelvåg, che abbandoniamo pochi minuti dopo.
Rinnovata speranza
Un po’ delusi dal fallimento della spedizione, siamo ancora ignari su come
spenderemo il terzo giorno dedicato alle isole Lofoten. La gita sul fiordo
viene presto scartata quando veniamo a conoscenza del suo prezzo:
quarantacinque euro sono troppi per un paio d'ore di qualcosa che comunque
siamo già abituati a vedere da parecchi giorni, per cui cerchiamo
un'alternativa, ma non è esattamente facile trovare piani alternativi in un
posto del genere. L'ufficio informazioni ci viene in aiuto quando ormai
siamo proprio disperati e senza idee, essendoci resi conto che le poche
attrazioni visitabili che ci sono nei dintorni non sarebbero raggiungibili
per penuria di bus nel fine settimana. Ci viene consigliata una puntatina di
una giornata all'isola di Skrova, proprio quella indicataci dai ristoratori
come il posto in cui cercare Laila, assicurandoci che è in ogni caso un
posto carino dove passare un pomeriggio. Vada per Skrova. La ricerca dunque
non è ancora finita, qualche tenue speranza si sta riaccendendo, l’ultima
fiammella superstite prima del soffio definitivo che ancora ignoriamo se
stia per arrivare o no.
La mattina successiva ci alziamo molto presto per prendere il primo
traghetto, che in tre quarti d’ora dovrebbe trasportarci su questo minuscolo
appezzamento di terra e roccia al largo della costa, che vive interamente di
pesca e caccia alle balene. Solo qualche rotatoria stradale e galleria da
percorrere, stavolta a piedi, fino al porto: non vediamo anima viva che sta
aspettando quel traghetto che dovrebbe partire da lì, cominciamo a
preoccuparci e a pensare di aver sbagliato qualcosa, ma i cartelli non
possono sbagliare e con chiarezza inequivocabile indicano il punto di
partenza proprio lì, in quello spiazzo completamente deserto. Quando la nave
lentamente si accosta e si apre per lasciar salire passeggeri e veicoli, la
verità è presto svelata: siamo gli unici due temerari che quella mattina
vanno all'isola. Senza di noi partirebbe vuoto. Imbarazzante, ma tutto
sommato è divertente avere una nave tutta per noi, con i bigliettai e
manovratori che ci guardano come bestie rare, probabilmente non ne vedono
molti salpare a quest'ora per raggiungere un posto così deserto. Dopo queste
premesse non possiamo fare a meno di chiederci che razza di isola misteriosa
sia questa, i cui traghetti sono così desolatamente vuoti. Il battello si
fermerà a Skrova per poi ripartire e raggiungere un’altra isoletta simile ma
ancora più piccola, denominata Skutvika. Speriamo per i marinai e
macchinisti che almeno ci sia qualcun altro da caricare più avanti, perchè
far partire dei traghetti completamente vuoti non deve essere molto
soddisfacente, anche se si viene pagati per farlo.
Skrova
All'arrivo a Skrova troviamo il minuscolo porto completamente deserto, con
un singolo punto di attracco per le navi e un'altrettanto singola corsia per
il carico dei veicoli, anche loro assenti. Appena messo piede a terra e
lanciato un'occhiata circolare a quel che vediamo del paese, capiamo subito
di essere capitati in un vero e proprio villaggio fantasma: nessuno in giro,
silenzio di tomba, tranquille casette con giardino ben tenuto tutte con le
tende tirate, due panchine in croce dalla curiosa forma a stella nella
minuscola piazza adiacente al molo, un unico alimentari che apre alle dieci
di mattina, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata. Detto
così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato
non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere: sarà
grande si e no come un minuscolo bar di provincia, suscitando non pochi
sorrisi e commenti da parte nostra. Questa è Skrova, e nulla di più:
nonostante la desolazione che si avverte nell'aria, ha una sua attrattiva:
mi affascinano sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo.
Delle volte sogno perfino di abitarci, per sfuggire al mondo a cui sono
abituato, così comodo ma anche così artefatto.
Skrova è inoltre popolata da tantissimi gatti: ne vedremo almeno una decina
nella giornata che passeremo lì, stupendi felini notevolmente pelosi e
altrettanto pesanti, con le zampe forti e muscolose indispensabili per
cacciare le prede che si nascondono nei fitti ed estesi boschi norvegesi.
Per questi animali deve essere un paradiso vivere qui: hanno tutto il pesce
che vogliono e la probabilità di essere investiti da un'automobile, la loro
più acerrima nemica senza odore nè respiro, è prossima allo zero.
In questi stretti e polverosi viottoli vediamo un paio di vecchie
automobili, che in Italia non circolano più da decenni, entrare pigramente
in qualche stradina secondaria, sbuffando e traballando sotto il peso di
qualche mobile caricato nel capiente bagagliaio. Poi un anziano signore che
aspetta che la locale Coop apra per andare a comprare il pane della mattina
(confezionato, perchè di pane fresco non se ne parla, a meno che lo vendano
da qualche altra parte). Una delle poche persone che incrociamo è una
giovane signora con gli occhiali da sole che ci riconosce subito come
turisti, e vedendoci vagare senza meta girando la testa qua e là cercando
qualcosa di anche solo vagamente stimolante, ci offre il suo aiuto.
Rispondiamo di non avere bisogno di particolari indicazioni (per dove,
poi?), ma approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l’introvabile
signora Laila che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi
trasferita qui, lei scuote il capo ma si offre di provare a chiedere alla
gente del posto: ci conduce in un punto dove è seduta una signora
decisamente attempata, con una rosa di capelli grigi, a giudicare dalla sua
pelle ha come minimo novant'anni. Si parlano un po’ in lingua locale, ma
niente: l'anziana donna ha vissuto qui da sempre e non ha mai conosciuto nè
sentito parlare di nessuno che si chiami in quel modo. La ricerca finisce
ufficialmente qui, è ormai chiaro che queste persone non le troveremo mai.
Il giro dell’isola
Cosa ci rimane da fare, a parte la spesa nel minuscolo negozietto dal tanto
famoso marchio? L'unico interesse dell'isola è quello naturalistico, che è
anche il nostro principale interesse dell’intero viaggio, da cui ci
impegniamo nel completare il giro dell'isola. Inizialmente vogliamo tentare
la scalata alla montagna più alta dell’isola, nulla di che ma un punto
perfetto per ammirare il panorama. Sbagliamo però strada, e ci troviamo sul
percorso del giro a 360°, da cui decidiamo di proseguire per quella via.
Delle banderuole arancioni penzolanti da dei pali di legno infissi
saldamente nel terreno ci indicano la strada in modo abbastanza regolare, un
momento ci troviamo nel sottobosco tra gli alberi che ci coprono come in un
tunnel, un altro momento siamo sulle rocce ricoperte interamente da muschi,
licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio disponibile, in un altro
ancora siamo in riva al mare su dei massi enormi pieni zeppi di
conchigliette portate dalle onde che da millenni bagnano queste coste
immacolate o quasi. Il silenzio è completo, rotto solo dall'incespicare dei
nostri passi su una roccia un po’ scivolosa o instabile, oppure dal muschio
secco e dalle eriche calpestate che crepitano e ci riempiono le scarpe di
fastidiose spine. Ogni tanto mi devo fermare a toglierle, quando mi sembra
di camminare su un letto di chiodi.
Il fascino di quell'isola così selvaggia e incontaminata è notevole: sul
suolo crescono innumerevoli mirtilli e bacche rosse opache non meglio
identificabili, forse ribes ancora immaturi. Le particolari sostanze
nutritive depositate ivi dall'acqua creano un ambiente in cui riescono a
vivere rigogliose delle specie di piante che alle nostre latitudini crescono
solo in alta montagna e in precario equilibrio, un altro aspetto peculiare
delle sfaccettate Lofoten. Non ce n’è, queste isole hanno davvero qualcosa
di speciale. Cespugli di splendidi fiori molto simili ad azalee spuntano
ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti dalle
foglie rosse ed arancioni che costeggiano intere parti di sentiero. A volte
intralciano anche un po’ il cammino con i loro rami tesi che rimbalzano
all'indietro colpendo il successivo escursionista se non sta alla distanza
di sicurezza adeguata. Ogni tanto qualche buca piuttosto profonda in mezzo
al sentiero mi fa sussultare proprio mentre sto per posarci il piede sopra:
nascosta dai lunghi fili d’erba che si piegano su di essa come a proteggerne
l’entrata, metterci il piede sopra significherebbe sprofondare con buona
parte della mia statura, quasi sicuramente insozzandomi di fango creato dai
torrentelli che ogni tanto si sentono scorrere. Questo succede più di una
volta, ma dopo la prima sto molto più attento ed evito agevolmente le
successive buche. L'unico rumore è quello del vento oceanico e delle
risacche che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di anni,
in un avanti e indietro che è sempre stato e sempre sarà: per il resto tutto
tace. Sentirsi così profondamente in contatto con la natura è un'esperienza
bellissima ed estremamente gratificante, che purtroppo oggi capita raramente
di vivere appieno. Siamo completamente soli: non si sente nessun fastidioso
vociare, nessun commento inutile, nessun cicaleccio sovrabbondante. Di
fronte a noi qualche isoletta ancora più piccola, costituita unicamente da
rocce coperta da muschi e licheni, stavolta completamente disabitata e
visibile in ogni sua parte, fa la sua bella figura in mezzo al mare,
indisturbata dalla presenza umana.
Proseguendo lungo la costa della collina, sbarrata dalle rocce e impossibile
da percorrere ulteriormente, il sentiero muta bruscamente in roccioso e
tortuoso, virando verso l’alto, decisamente ripido: più volte perdiamo la
strada e finiamo dentro i cespugli spinosi, che scricchiolano sotto i nostri
piedi come il vetro sottile di lampadine infrante in mille pezzi, facendoci
sprofondare in un equilibrio costantemente instabile fino all'ultima salita.
Dobbiamo salire per dei gradini scavati nella roccia molto faticosi da
superare, che creano delle piccole grotte dove un esploratore in difficoltà
potrebbe passare una soddisfacente notte al riparo. Finalmente in cima la
visuale si riapre sulla vallata sottostante: il paese appare così piccolo e
insignificante da lassù, ancora più di prima. Una bianchissima spiaggia
sulla destra unisce come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i piedi
con un'altra più piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette
bianche, apparentemente ben tenute e per nulla diroccate come ci si potrebbe
aspettare. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi
esclusivamente rocciose, che solo in pochi punti si apre per consentirci la
vista del mare che si estende oltre, ed è sovrastata da nuvoloni grigi che
però non riversano nemmeno una goccia d’acqua. Una breve sosta sul crinale,
per poi ridiscendere per un sentiero ancora più difficile, fatto di continui
salti tra una roccia e quella sottostante, abbastanza bassi da poterli
superare con un balzo e abbastanza alti da farsi male ai piedi atterrando
con tutto il peso in una volta sola. Scivolando ed incespicando raggiungiamo
di nuovo il sentiero battuto, fiancheggiato dall’onnipresente vegetazione
del sottobosco. Un grande sollievo per i nostri piedi imprigionati dentro
delle scarpe ormai sempre più consumate, le mie tralaltro sono completamente
inadatte alle camminate su questo tipo di terreno, essendo fatte di tela
flessibile e dotate di suola troppo bassa. Il giro dura poche ore, ma è
molto intenso: i luoghi deserti e silenziosi come questo sono un toccasana
per me. Anche questo è un altro posticino candidato ai miei giorni di
pensionamento, che ora per fortuna sono ancora molto lontani.
I gatti
Abbiamo ancora diverse ore da passare a Skrova, prima che l'unico traghetto
disponibile venga a recuperarci intorno alle sette e mezza, per cui dobbiamo
inventarci qualcosa da fare, a parte mangiare le vivande della piccola Coop.
Ritornando in piazza trovo un bellissimo ma non molto socievole esemplare di
gatto delle foreste norvegesi puro al 100%, talmente peloso da sembrare un
peluche fuori misura. In un impeto di sconsiderato ottimismo lo sollevo,
esponendomi al rischio di graffiate, ma la bestiola sembra starsene
tranquilla. Pesa parecchio! Davide mi scatta una foto mentre lo tengo
saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la foto è stata impressa sul
rullino il gatto si libera dalla presa con una mossa improvvisa e scappa.
Questo si chiama tempismo!
Ad un’altra estremità dell’isola troviamo solamente quello che sembra un
faro ma poi si rivela un centro di controllo per i cavi dell'alta tensione,
che qui scorrono in parte appesi ai tralicci e in parte a terra, ben isolati
in mezzo al sentiero battuto che poco prima abbiamo percorso. Lungo la
strada non resisto al fascino di uno scivolo e di un'altalena, tra la
benevola disapprovazione del mio compare che si rifiuta categoricamente di
salirci. Tornando dopo poco nella piazza principale, in cui qualche essere
umano come noi stavolta c'è, ci sediamo involontariamente a fianco di un
nido di vespe, della cui presenza però ci accorgiamo dopo svariati minuti,
quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con dei sassolini. Gli
insetti visibilmente innervositi cominciano ad uscire uno dopo l’altro
vorticando rabbiosamente attorno al nido, abbiamo paura che possano
prendersela con noi. Stiamo per sbaraccare e spostarci da un'altra parte, ma
le vespe si calmano presto, e possiamo continuare le nostre partite di
briscola senza danni. Quando siamo stanchi di trafficare con cuori e picche,
facciamo un giro anche nell’ultima parte del paese, seguendo la costa: vuota
e smorta anche questa zona (che novità!), sembra proprio un villaggio
abbandonato da Far West americano, se non fosse per dei simpaticissimi
gattini di pochi mesi che non hanno paura di noi e hanno solo voglia di
giocare un po’. Si fanno anche prendere in braccio, sono veramente teneri,
come tutti i cuccioli di qualsiasi animale. Quando iniziano a rincorrersi
tra di loro infilandosi nelle siepi e nelle pallide staccionate delle case,
li lasciamo divertire e proseguiamo per il polveroso viale, trovando
macchine parcheggiate vecchie come minimo di trenta o quarant'anni, più dei
grossi blocchi di cemento e travi di ferro abbandonati sulla riva.
Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi
baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia e centinaia di
questi esemplari tingendo di rosso gli oceani e rischiando di causarne
l'estinzione, indifferenti alle pressioni internazionali.
Ormai un po’ stufi di girare per quelle stradine deserte, ce ne torniamo in
piazza, per essere pronti all’arrivo del traghetto. Chissà se ancora una
volta sarà vuoto. In piazza assistiamo a delle animate lotte di territorio
ingaggiate da altri tre felini autoctoni, che si rincorrono e si
punzecchiano come dei bambini per decidere chi tra loro avrà il dominio di
quella zona. Ci divertiamo ad osservarli mentre si scrutano prudentemente
dalle loro posizioni di guardia, ogni tanto facendo qualche piccolo scatto
per poi muoversi in tutt’altra direzione, da veri tattici di guerra. Ancora
una volta, i gatti sono gli animali più belli ed affascinanti del mondo.
Strano essere
Finalmente vediamo in lontananza una piccola nave arrivare: i pochi turisti
si avvicinano tutti al molo, noi inclusi, e sentiamo ancora una volta frasi
pronunciate in italiano, stavolta in puro dialetto napoletano. È una vera
persecuzione. Dal traghetto, lentamente accostatosi al molo, scendono
stavolta parecchie persone, che probabilmente sono di ritorno da Skutvika.
Se all'andata avevamo l'imbarazzo della scelta per sederci, al ritorno i
posti sono pochi e preziosi, e per le nostre gambe stanche ora sono
assolutamente necessari. Da cui ce ne accaparriamo velocemente due,
custodendoli gelosamente fino all'arrivo a Svolvær. Appena sbarcati facciamo
la spesa per i giorni successivi in un grande magazzino, dato che non
vedremo più per qualche giorno un ostello o un locale dove mangiare.
Arriviamo proprio mentre stanno chiudendo, riusciamo a fare la spesa al
volo. Mi metto a cercare febbrilmente le bustine di stoccafisso, presto
usciremo dal Paese e probabilmente non ne troverò più, è l’ultima occasione
che mi si presenta di provare questo tipicissimo prodotto. Per quanto giro
il supermercato, non le trovo: tuttalpiù veniamo più volte in contatto con
un essere umano di dubbia provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono
sott’olio, i vestiti stracciati e una bottiglia vuota in mano, che si aggira
per il supermercato sbuffando e facendo strani versi a chiunque
involontariamente gli si pari davanti. Sembra che sia convinto di essere su
un altro pianeta dall’espressione che ha negli occhi pericolosamente
infossati, dimostra settant’anni ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta.
Mi inquieta un po’, continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco
a me, anche se dopo i primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non
curarsi più della mia presenza. Affrettandomi a finire la spesa per
liberarmi il prima possibile del curioso personaggio, all'ultimo riesco a
trovare le bustine di stoccafisso! Appena pagato dobbiamo subito uscire in
fretta e furia: incalzati dagli inflessibili commessi che non possono
ritardare nemmeno di un minuto a chiudere l’ipermercato, finiamo sotto la
pioggia che guarda caso inizia anche lei a cadere proprio in questo momento.
Dello strano personaggio fortunatamente non v’è più alcuna traccia. Il
ritorno con addosso i kee-way e le borse della spesa da tutte le parti è
lungo e noioso, ma termina anche lui e possiamo finalmente dormire la nostra
ultima notte nel nostro buco di ostello. Per cena tento di mangiare lo
stoccafisso così come l’ho comprato, peccato che non riesco nemmeno a
staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro! Ha la consistenza di un
pezzo di legno. Solo una volta a casa scoprirò che andava cucinato a dovere
prima di poter essere commestibile. Ora si dorme: domani si riparte alla
volta di Narvik, uscendo definitivamente dalle lande norvegesi per non più
ritornarvi. Lande che ci hanno regalato grandissime emozioni e degli
splendidi ricordi che ci porteremo dentro per sempre.
Addio Norvegia!
Ci attende una giornata intera in movimento, per raggiungere il nostro punto
di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå. Anche in questo caso non
abbiamo informazioni di alcun tipo su di essa, né tantomeno su questo
fantomatico ostello ivi presente, che non riusciamo a contattare per
telefono e del quale non conosciamo nemmeno l'indirizzo. Dovremo andare un
po’ alla cieca, sperando in un pullman notturno che ci porti immediatamente
in Finlandia. Se va tutto male, dormiremo in stazione, sempre sperando di
trovarla aperta.
La mattina ci alziamo fin troppo presto, abbandonando con soddisfazione il
puzzolente ostello, per prendere il bus che ci riporterà sul continente fino
a Narvik, distante qualche centinaio di chilometri. Essendo domenica, non
c'è assolutamente nessuno in giro nè niente di aperto, nemmeno il più grande
dei supermercati. La luce è già forte, ma la cittadina dorme ancora, sembra
proprio che non si voglia svegliare. Le uniche cose che si vedono muoversi
sono le cartacce per terra che si spostano di qualche centimetro sospinte
dal vento, due solitarie automobili cariche di persone che passano
lentissime ed incerte lungo il larghissimo vialone per poi scomparire, e
null'altro. Mentre aspettiamo, camminando su e giù per il marciapiede della
nostra fermata, cerchiamo di distogliere i nostri pensieri dalla
preoccupazione per la nottata che ci attende, ma l'attesa è lunga e i
pensieri sono difficili da controllare. Non siamo nemmeno sicuri di riuscire
a prendere la nostra coincidenza una volta a Narvik, anche se sappiamo bene
che sia i bus che i treni scandinavi sono spesso in perfetto orario. La
malinconia per il dover lasciare la Norvegia si fa sentire molto forte, e ci
accorgiamo di aver avanzato più di trecento corone che non abbiamo idea di
come spendere. Una vera seccatura poichè nè in Svezia nè in Finlandia le
accetteranno più, costringendoci a cambiarle con tassi di interesse
assolutamente imprevedibili. L’autobus arriva finalmente a prelevarci, dopo
che abbiamo per un attimo pensato di non vederlo più arrivare. Avendo
scoperto giusto il giorno prima che il biglietto interrail ci garantisce lo
sconto del 50% sugli autobus delle Lofoten, stavolta paghiamo
considerevolmente meno. Un peccato non averlo scoperto prima quando dovevamo
arrivare a Svolvær, ma pur sempre meglio tardi che mai. Ci mettiamo comodi
per il lungo tragitto che ci aspetta: arriveremo più o meno per le due e
mezza. Il paesaggio della parte più a nord delle Lofoten non è più nulla di
particolare: bello da vedere sì, ma tutto sommato abbastanza piatto, quasi
continentale. Le montagne sono molto simili a quelle nostrane, ricoperte di
vegetazione ormai quasi completamente, vi sono pochi tratti sull'acqua degni
di nota, e tanti anonimi svincoli stradali. Continuamente sballottati in
mezzo a tutte queste curve, passiamo il tempo ancora una volta con un po’ di
sana musica nelle orecchie, fedele compagna che non tradisce mai.
Narvik
Dopo sei ore di pullman siamo di nuovo nella Norvegia continentale. I ponti
che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci permettono di non dover più
prendere mezzi navali sono relativamente recenti: quando mio padre decenni
fa era qui non esisteva niente di tutto ciò. L’ultima striscia di asfalto e
cemento sospeso che ci unisce alla terraferma è lunghissima, il ponte appare
molto moderno. La cittadina di Narvik è ancora oggi relativamente
importante, famosa per essere stata pesantemente bombardata dalle truppe
tedesche durante la seconda guerra mondiale per accaparrarsi il ferro ivi
prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante tutta questa
storia alle sue spalle, la sua stazione è letteralmente un buco:
piccolissima, deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della
biglietteria sono chiuse e non c'è nulla che presagisca che si debbano
aprire nel pomeriggio, probabilmente a causa della chiusura domenicale. Ma a
chi arriva e deve partire proprio quel giorno nessuno ci pensa? E se non
avesse il biglietto già pronto? Fortunatamente il nostro fidato cartoncino
dell'interrail è pienamente valevole per un treno come quello diretto a
Luleå, che non necessita di prenotazione anticipata non essendo
particolarmente importante nè con i posti preventivamente assegnati. Il
tabellone per le partenze è decisamente mal progettato: mostra gli orari in
modo un po’ confuso, per poi lasciare il posto a minuti e minuti di
informazioni pubblicitarie che non servono a nessuno, costringendo chi sia
arrivato proprio in quel momento ad una lunga attesa per sapere quando
arriverà il suo treno. Siamo comunque in orario, possiamo metterci comodi ed
addirittura usufruire dei bagni senza pagare nemmeno una corona, una vera
rarità qui in Norvegia. Crollano tutte le speranze di riuscire a spendere
almeno una parte del denaro locale residuo: dentro e fuori dalla stazione
non c'è assolutamente nulla, nemmeno uno straccio di chiosco che venda
giornali o caramelle, niente. L'unica cosa in cui troviamo da spendere soldi
è un telefono pubblico, che tentiamo di utilizzare per chiamare nuovamente
l'ectoplasmico ostello di Luleå, ma ancora una volta il numero non è
funzionante e il telefono per giunta ci mangia le venti corone che gli
abbiamo regalato per farci fare la telefonata. Non è la prima volta che il
telefono pubblico ci mangia i soldi, e iniziamo ad essere stufi. Farsi
fregare da una macchina non è esattamente il modo migliore di buttare via i
risparmi, da cui accantoniamo per sempre i telefoni pubblici, fidandoci solo
del cellulare.
Mentre mi guardo intorno seduto su una delle panche all'interno, un
viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone che facciamo tutti fatica a
interpretare si avvicina timidamente per chiedermi qualche informazione su
come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver decifrato le partenze
purtroppo sono costretto ad informarlo che il suo treno è già partito la
mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un po’ più su.
Dalla sua espressione capisco che c’è chi sta peggio di noi in quanto a
spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo sì il
treno pronto, ma niente di più, nessuna informazione sulla destinazione e
tantomeno certezze. Davide trova un elenco telefonico della zona abbandonato
sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora
Laila: scorrendo le pagine piene zeppe di nomi di abitanti di tutte le
Lofoten incontriamo due omonimie esatte, una di lei e una del marito. Le
comunico ai genitori a casa, ma si rivelano abitanti di Narvik che non hanno
nulla a che fare con le persone che stiamo cercando.
Le speranze di trovarli, distrutte e ridestate tante volte, crollano ora
definitivamente.
Svezia
Il treno che arriva poco dopo ha le carrozze specificatamente divise per
destinazione. Alcune si staccheranno a metà strada e proseguiranno in
un'altra direzione: una sola di esse ferma a Luleå, qualche altro centinaio
di chilometri più a est. Per raggiungerla ripasseremo di nuovo dal Circolo
Polare Artico, abbandonando le terre del sole perenne per non tornarvi più.
Prendiamo posto liberamente sulla carrozza, il controllore valida i nostri
biglietti stupendosi che non parliamo svedese (non si nota che siamo
italiani?), e possiamo finalmente dare l'ultimo vero saluto alla Norvegia.
Dopo una mezzoretta dalla partenza la voce del capotreno amplificata
dall’altoparlante ci informa che abbiamo oltrepassato il confine e stiamo
entriamo nella ben più vasta Svezia. Qui il paesaggio è decisamente diverso
da quello a cui siamo ormai abituati. I fiordi e le maestose montagne
onnipresenti lasciano spazio a delle interminabili foreste di conifere
alternate a betulle nane, talmente regolari che sembrano una piantagione più
che un bosco. Ogni tanto qualche grossa montagna rocciosa si intravede,
raramente qualche palude e fiumiciattolo, nel complesso è tutto decisamente
monotono. Vediamo altri due arcobaleni, affascinanti come sempre, in
qualunque posto e condizione li si osservi. Che sia anche questo un presagio
di quanto di buono ci aspetta in territorio svedese?
Nella sterminata campagna che attraversiamo stanno girando stancamente delle
pale eoliche, con un variopinto tramonto sullo sfondo che non può non
emozionare anche il più insensibile dei viaggiatori. Per vederlo dobbiamo
girarci continuamente, ma a costo di farmi venire il torcicollo non posso
perdermi lo spettacolo. Stento a credere che quel gioco di colori sia dovuto
unicamente al pulviscolo atmosferico che devia i raggi solari tingendo di
rosso e arancione il cielo. Riconosco che è l’espressione palese di una
potenza nascosta ed onnipresente, che non siamo in grado di indagare ma che
lancia segnali così inequivocabili da non poter essere ignorati.
Incrociamo un'industria di legname, anche qui come in tutta la Scandinavia
particolarmente grandi e diffuse, essendo il commercio del legname una delle
principali forme di sostentamento e di creazione di posti di lavoro.
Centinaia di tronchi grezzi ammassati assieme, in attesa di essere lavorati
e trasformati ora in una sedia, ora in una scarpiera, ora in una scrivania.
Probabilmente abbiamo tutti in casa qualcosa che proviene dalle foreste
nordiche, dato l'enorme sfruttamento delle zone boschive. Treni merci
interminabili solcano lentamente le rotaie in direzione opposta alla nostra,
ci divertiamo a contare il numero dei vagoni, il più lungo ne ha ben
sessantotto, di forma triangolare che mi ricorda molto i classici vagoni per
il trasporto del carbone. La disarmante ma affascinante monotonia del
paesaggio rallenta l'incedere del tempo, nonostante stiamo sfrecciando molto
velocemente sulle rotaie. Il mistero del tempo, così uniforme per un
osservatore insensibile alle vicende umane e così mutevole quando vissuto
nella dimensione dell'anima, è un altro che temo non verrà mai compreso.
Luleå
Alle undici, ora del nostro arrivo, c'è ancora una discreta luce. Prima
rivelazione poco incoraggiante è che la stazione dei treni è
irrimediabilmente chiusa. Dobbiamo scendere e fare il giro per uscire
immediatamente dal perimetro della stazione, prima che chiudano anche i
cancelli. La poca gente che è scesa insieme a noi dalla carrozza si
allontana in tutte le direzioni, disperdendosi nelle strade. Rimaniamo solo
noi due, probabilmente gli unici senza una sistemazione sicura. La nostra
prima priorità è in ogni caso quella di trovare un autobus notturno che ci
porti subito ad Haparanda, al limite tra la Svezia e la Finlandia: un buon
colpo di fortuna ci permetterebbe di percorrere più strada possibile in meno
tempo, e non meno importante, di avere un posto comodo e al caldo su cui
dormire. Purtroppo apprendiamo subito che anche la stazione dei bus ha le
porte bloccate da robuste serrature e riaprirà solo la mattina seguente alle
sei e mezza. È tutta illuminata all'interno con le sue panche di legno
vermiglie, stranamente divise dal bracciolo sulla due terzi invece che a
metà, ci sono delle verdissime piante ornamentali che fanno la loro bella
figura e i tabelloni interni sono quasi sgombri da informazioni. Quello
esterno alla stazione segna solo pochissimi autobus, per giunta in arrivo e
non in partenza da essa, ognuno a mezz’ora circa di distanza dall'altro.
Mentre aspettiamo che l'automezzo arrivi così da chiedere informazioni
all'autista sulle partenze imminenti o alla peggio su un eventuale ostello o
albergo a buon prezzo nelle vicinanze, comincio a preparare la panca per la
notte in stazione ormai più che probabile. Allestisco solo un posto, dovendo
uno di noi rimanere sveglio a turno per fare la guardia: nonostante la
stazione non appaia come una zona malfamata e abbiamo addirittura la
stazione della polizia dall'altra parte della strada a non più di trenta
metri da noi, è meglio essere prudenti. Stendo asciugamani, giacche, vestiti
inutilizzati e qualsiasi cosa che possa rendere più morbida la panca, ma con
scarsi risultati: sdraiandomici sto scomodissimo, il braccio sinistro non ha
spazio vitale e per stare minimamente comodo dovrei tagliarmelo via. Tutte
le panche sono conformate così, da cui anche cambiandola non otterrei
miglioramenti. Oltretutto i dolori nelle zone di appoggio non tardano a
farsi sentire dopo appena qualche minuto. Passano più volte sulla strada un
paio di sbandati a bordo di un rumorosissimo motorino, poco distanti da noi.
Urlano ed aprono il gas completamente, facendo un baccano infernale. Li
maledico apertamente per avermi ridestato mentre stavo forse trovando la
posizione giusta per addormentarmi, ma per fortuna svaniscono anche loro per
le strade della città, senza più ritornare. Mentre decido di rinunciare al
mio proposito di dormire su quell'asse di legno, arriva il primo autobus:
Davide corre subito a chiedere informazioni sulle tratte notturne, lo seguo
con lo sguardo speranzoso ma non troppo. L’autista non dispone di tutti gli
orari degli autobus internazionali, da cui ci invita ad aspettare il
prossimo: è quasi certo che in quell’autobus, proveniente da più lontano, vi
siano. Così aspettiamo altri venti minuti, meditando possibili soluzioni su
posti alternativi per dormire, ma non trovando nessuna opzione
soddisfacente: le chiese a quest'ora sono tutte chiuse dalle loro enormi
serrature, nonostante all'origine della loro storia fossero state concepite
anche come rifugi per dei cristiani senzatetto in difficoltà, che sarebbero
stati accolti a braccia aperte nella casa di Dio. La stazione stessa è ben
chiusa e protetta da sistemi di allarme efficientissimi, bagni pubblici
aperti zero, insomma il nulla. La temperatura non sembra nemmeno troppo
bassa, pensiamo di poter resistere tranquillamente per una notte fuori,
magari divertendoci anche in quella situazione mai vissuta e per questo
anche un po’ intrigante. Ma ci sbagliamo…
Aiuola
Il secondo ed ultimo autista arriva col suo mezzo e ci informa che il
prossimo bus per Haparanda parte l’indomani alle otto e mezza di mattina,
prima non c’è assolutamente nulla. Ci guardiamo pensando la stessa cosa:
siamo nella palta fino al collo. Prima di sparire definitivamente insieme al
suo bus ormai vuoto, l’autista ci consiglia un albergo poco distante dove
tentare di trovare una sistemazione per la notte. Nisba: le porte sono
sbarrate, si può entrare solo digitando un codice sulla tastiera a muro, che
logicamente non conosciamo. Così ritorniamo verso la stazione passando
attraverso una collinetta erbosa con qualche albero sulla sommità, poco
distante dalla stazione e dall'adiacente negozio di dolciumi, illuminato
solo all’interno da una flebile luce di guardia. Decidiamo di usare quella
piana erbosa come giaciglio improvvisato per la notte. È decisamente più
comoda di una panca di legno, se non altro ci si può sdraiare liberamente
senza impedimenti agli arti e ci possiamo girare senza cadere. Il freddo
inizia ad aumentare, perciò ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a
disposizione, incluso il kee-way. Degli asciugamani stesi sull'erba fradicia
di condensa fungono da materasso per non bagnarsi completamente e per stare
un po’ più comodi, gli zaini circondano il punto in cui poggia la testa così
da isolare il più possibile dal vento, i piedi sono infilati in un sacchetto
di plastica per ridurre al minimo la dispersione del calore. Abbiamo da due
a tre strati di pantaloni addosso, e pure abbiamo freddo. Tocca a me tentare
di dormire per primo, ma non se ne parla proprio di addormentarsi: il poco
sonno residuo ora mi è passato completamente, sono nella fase in cui si
darebbe qualsiasi cosa per scivolare nel sonno ma il corpo non collabora.
Capendo che di questo passo non ci riuscirò mai, cedo volentieri il mio
posto a Davide e vado a farmi un giro nella stradina sottostante, in realtà
una pista ciclabile. Dalla nostra posizione sopraelevata possiamo vedere
tutti gli edifici attorno, tutti con le luci rigorosamente spente, tranne la
stazione. Quell'ambiente riscaldato ed illuminato è terribilmente invitante,
ma assolutamente inaccessibile. Solo per un attimo una persona si avvicina
alle pesanti porte per controllarle: è un addetto alla vigilanza, che dopo
aver controllato che gli allarmi siano in funzione riparte senza più farsi
vedere. Gli unici esseri umani che rimangono in zona sono un paio di
tassisti, che nella loro macchina riscaldata stanno fermi per qualche minuto
prima di ricevere una chiamata e ripartire, sparendo anche loro dalla nostra
vista.
Stella cadente
La rossastra luce del sole, fioca ma costante, si intravede sopra l'enorme
centro commerciale torreggiante davanti a noi, come un'alba dormiente che
non si risveglia mai. Un altro momento decisamente magico: nonostante la
situazione sia piuttosto disagevole, per un attimo le percezioni sgradevoli
passano in secondo piano osservando nuovamente quei ben conosciuti colori. È
la notte di San Lorenzo: sarebbe veramente un bel colpo riuscire a vedere
una stella cadente. Così rivolgo gli occhi al cielo: grazie al cielo in
buona parte limpido vedo le lontanissime stelle che a milioni di anni luce
da noi bruciano ed esplodono in una frazione di secondo con una forza
inimmaginabile, creando tutta la materia che ci sta componendo ora.
Osservandole mi pare che si muovano, mentre in realtà sono ingannato dal
loro costante tremolio e dal freddo che sento, il quale altera un po’ le mie
percezioni. Il mistero che racchiudono queste stelle così infinitamente
lontane ed immense mi fa ancora una volta riflettere e rimango ad osservarle
a lungo. Proprio mentre sto desistendo per la troppa immobilità e i dolori
al collo, finalmente vedo una stella cadente! È velocissima, percorre circa
metà cielo in meno di un secondo, per poi sparire in un lampo, così come è
apparsa. Il meteorite si è completamente vaporizzato al contatto con la
rovente atmosfera terrestre, lasciandomi un piccolo regalo che mi allieta
per qualche secondo la difficile permanenza nella morsa del freddo.
Notte gelida
La situazione, in un silenzio completo, potrebbe apparire addirittura
invidiabile, ma il freddo inizia a farsi davvero intenso: dopo le due di
notte i minuti sembrano ore, ogni tanto controllo l'orologio pensando che
sia passato parecchio tempo ormai, quando in realtà le lancette si sono
spostate avanti solo di una decina di minuti. La lentezza del passare del
tempo ora è davvero scoraggiante. Il freddo diventa sempre più penetrante: è
sì estate, ma ci troviamo pur sempre in un paese della Svezia
settentrionale, appena sotto il Circolo Polare Artico. Ogni tanto passano
delle persone in bicicletta sulla pista apposita proprio davanti alla nostra
aiuola, coperti la metà di noi ma per niente sofferenti. Cosa ci facciano in
giro per il parco in bici alle due di notte passate, non riesco veramente a
spiegarmelo. Forse hanno le percezioni del freddo simili a quelle della
piccola statua di bronzo che in mezzo all’erba del parco si regge tranquilla
sulle gambe, indifferente a tutto.
Sono costretto a camminare avanti e indietro senza sosta, saltellando per
non congelarmi i piedi, che stanno già perdendo buona parte della
sensibilità. Tiro fino in cima la cerniera lampo della giacca, alitando nel
colletto per riscaldarmi la zona delle giugulari. Ottengo come unico
risultato quello di infradiciare la giacca di vapore acqueo, senza per
questo sentire alcun beneficio. Davide si sveglia dopo aver dormito circa
tre quarti d'ora, ormai sono le tre e tocca a me cercare di dormire, anche
perchè non ne posso più di stare in piedi. Le poche panchine presenti sono
completamente fradice e non posso di certo sedermici. Mi sdraio al suo
posto, cercando di dormire il prima possibile per sottrarre i miei sensi a
quell'ambiente freddo. Mi accorgo di tremare come una foglia, cerco di
sistemarmi in modo da sentire meno freddo, piano piano mi calmo e riesco a
prendere sonno, o almeno così pare. Forse ho dormito venti minuti in tutto,
ma è una stima ottimistica. Alle tre e mezza mi sveglio, con i sensi ottusi
e faticando a capire se mi sia realmente addormentato o no. In questi venti
minuti scarsi il freddo si è fatto insopportabile: stare fermi è ora
impossibile. Guardo nuovamente il cielo, in corrispondenza della decisa
sfumatura rosata all'orizzonte, sperando di vedere il sole comparire. È un
inganno: la luce non prelude all'alba, rimane sempre beffardamente uguale e
solo accennata, senza riscaldare minimamente l'atmosfera. Prendiamo insieme
a vagare senza meta, cercando di riscaldarci con ben pochi risultati. Il
tempo si è enormemente dilatato e passa con una lentezza ancora più
insostenibile di prima. Darei qualsiasi cosa per poter entrare in un
ambiente riscaldato. Ci aggiriamo per le strade della città, cercando
qualche locale aperto dove poterci rifugiare, ma non c'è niente di niente.
Tutti i negozi sono perfettamente chiusi dai loro lucchetti, alcuni hanno le
luci interne di guardia ancora accese, altri sono completamente bui. Sulle
mura di alcune case ci sono dei bocchettoni a muro, che sputano fuori aria
forse calda: proviamo a scaldarci col getto d’aria, che però è fredda e non
ci è di nessun aiuto. L'unico posto aperto che incontriamo è un hotel, nel
quale però è meglio non provare ad entrare, ci caccerebbero probabilmente
subito scambiandoci per vagabondi o ubriachi. E anche entrando, cosa avremmo
potuto fare? Pagare profumatamente una camera per una notte, solo per stare
lì tre ore? Decisamente è meglio rinunciare, anche perchè l'uomo con la
camicia bianca che sta dietro il bancone sembra guardarci molto
sospettosamente. Dobbiamo cavarcela da soli fino alle sei e mezza. I sei o
sette strati di vestiti che portiamo addosso sembrano non riscaldarci
affatto, è quasi come non averli: in questo momento la giacca piumino che ho
lasciato a casa mi farebbe molto comodo. I minuti però passano, lentamente
ma passano: noi non ce ne accorgiamo, ma piano piano arrivano le quattro,
poi le quattro e un quarto, poi le quattro e tre quarti, fino ai primi tenui
accenni di un'alba, che qui avviene molto presto. Dopo ore e ore passate
così, intorno alle cinque la prima luminosità del sole ci investe con i suoi
benefici raggi. Ci sembra di rinascere. Non ho mai amato l'amico astro come
ora!
Dopo la prima alba, mentre il sole sale lentissimamente nel cielo,
ricominciamo a scaldarci efficacemente. Il sangue riprende a circolare nelle
arterie periferiche con decrescente difficoltà, la mente si risveglia
dall'ottundimento. Piano piano i nostri corpi tornano in temperatura,
immobili di fronte alla luce per assorbire tutto il calore possibile,
spostandoci solo per essere investiti meglio dai raggi quando salendo
incontrano delle fronde di alberi vicini che li attenuano un po’. Non serve
più la camminata forzata per non fare la fine dello stoccafisso che giace
quasi intonso nella tasca inferiore del mio zainetto, chiuso con lo scotch.
Dopo non molto però delle perfide nuvole nerastre, come mandate da un
diavoletto dispettoso, oscurano completamente il sole, riportandoci in un
attimo al gelo: pochissimi secondi e ricominciamo ad avere freddo
esattamente come prima. Ritorniamo quindi a camminare per le vie della
cittadina, maledicendo le nubi. Quando vediamo i vetri delle automobili
parcheggiate lungo la strada che sono completamente coperti di ghiaccio,
capiamo che stanotte deve aver fatto proprio freddo! Con una lentezza
esasperante arrivano le sei di mattina: ancora solo una mezz’ora e potremo
finalmente entrare nella stazione, per rimetterci in sesto e successivamente
prendere il nostro autobus che arriverà dopo altre due ore. Il sole
improvvisamente rifà capolino, illuminando un tratto di strada del piazzale
dei bus, verso il quale ci spostiamo immediatamente. Ancora una volta
ringraziamo in silenzio la nostra stella. I minuti passano ora un po’ più in
fretta, finchè finalmente una donna, coi capelli raccolti e vestita solo di
una giacchetta leggera, si avvicina ad un entrata secondaria del negozietto
di dolciumi, entrando per non uscirne più. Deve per forza essere la commessa
che prepara il negozio per aprirlo: enorme il sollievo quando, dopo aver
armeggiato un po’ all'interno e acceso qualche luce in più, la vediamo
uscire dalla porta d'ingresso per sistemare i quotidiani nuovi sui supporti,
muovendosi in fretta per non stare troppo fuori al freddo che noi stiamo
subendo da ore. Vorrei entrare immediatamente, ma è meglio aspettare ancora
qualche minuto finchè non avrà finito di sistemare il negozio, come mi fa
notare il mio compagno. Aspettare sessanta secondi in più ormai non fa molta
differenza. Appena possiamo spingiamo finalmente quella porta ed entriamo
anche noi, primi intirizziti clienti della giornata, con lo stomaco vuoto da
troppe ore ed ormai anch’esso in ribellione.
Ci dirigiamo immediatamente verso la macchinetta del caffè self – service,
proprio davanti a noi: due cappuccini bollenti col croissant di contorno
vengono immediatamente pagati con la carta di credito fortunatamente
accettata, e consumati avidamente. Una colazione banale per qualcuno che si
è svegliato nel suo letto al caldo, ma per noi la più soddisfacente mai
mangiata! Il liquido caldissimo scende giù nello stomaco bruciando
piacevolmente al suo passaggio nella gola e nell'esofago, rimettendoci in
sesto poco alla volta, mentre l'indaffarata ma gentile commessa continua a
sistemare il negozio, indifferente alle nostre vicende. Di sicuro non ha la
minima idea della notte che abbiamo appena passato. Ma non ha nemmeno idea
di quanto la stiamo benedicendo e ringraziando per averci aperto quella
porta, nonostante sia solamente il suo dovere. Attingiamo dei biscotti dallo
zaino, come supplemento "fai da te" alla colazione comprata per riempire il
più possibile i nostri stomaci in sommossa. Dopodichè ci sediamo su quelle
panche che abbiamo visto per tutta la notte da dietro i vetri, finalmente a
noi accessibili. Stravaccati sul legno rosso, nel caldo ambiente della
piccola stazione, il gelo è ormai un ricordo lontano.
Malessere
Mi sto quasi addormentando sulla strana panca su cui mi sono sdraiato per
cercare di recuperare un po’ di sonno arretrato, sono in dormiveglia
profondissimo: se mi dicessero qualcosa sentirei le parole ma probabilmente
non intenderei niente. È quello stato di trance in cui i pensieri e le
immagini mentali si fondono con la realtà, in cui ti trovi ad immaginare ed
abbinare cose e situazioni assurde tra loro, senza alcuna logica. Non è
piacevole, preferirei un buon sonno invece che questo stato di ottundimento
che non dà riposo. Ci pensa però Davide a riscuotermi, quando è il momento
di prendere l'autobus: alle otto e venti passa finalmente questo mezzo che
ci porterà ad Haparanda, al limite del confine svedese, per poi entrare in
Finlandia dall'adiacente cittadina dal buffo nome di Tornio. Di malavoglia
abbandono il mio giaciglio ed usciamo nuovamente alla fredda aria di Luleå.
Fuori non fa certo caldo, ma la temperatura è decisamente più sopportabile
di quella della notte che ormai ha definitivamente finito di aggredirci. Il
bus a due piani arriva a prenderci, tardando però a posizionarsi
correttamente nella sua fermata: in questo momento odio profondamente
l'autista che se la sta prendendo comoda, poichè il mio intestino sta
malissimo dopo tutto il freddo che ho preso e non riesco più a trattenermi,
gli spasmi non mi danno tregua. Prego con tutte le mie forze che su quel bus
ci sia un bagno, eventualità molto probabile essendo un mezzo turistico
decisamente grande. Il biglietto interrail ci fa salire gratis per cui
risparmio un po’ di tempo utile per raggiungere il gabinetto, che scopro
subito esserci. Sistemo frettolosamente le mie cose sul sedile e ci vado
immediatamente, trovandolo fortunatamente libero. Se il bus non fosse munito
di servizi, non so veramente come farei! Nelle due ore di strada che ci
separano da Tornio visito il capiente stanzino ben cinque volte, battendo
quasi sempre la testa contro le bassissime porte che separano uno
scompartimento dall'altro, per la troppa fretta di raggiungerlo. Non è solo
il mio intestino a soffrire: non mi sento per niente bene in generale, mi
sale un po’ di febbricola e ho i brividi, sento caldo e vorrei solamente
essere in un qualsiasi letto a dormire. Invece mi tocca cambiare due bus e
poi prendere immediatamente un treno che arriverà a destinazione solo in
tarda serata. Non avendo vie d'uscita cerco di riprendermi il più possibile,
non posso permettermi il lusso di stare male. Il mio impegno ha successo:
evitando di addormentarmi e tenendomi sveglio mentalmente, all'arrivo ad
Haparanda sto quasi bene. Anche questa volta ho vinto io contro il freddo e
le piccole avversità del cammino.