InterRail 2008
Norvegia, Svezia e Finlandia
Periodo: 28 Luglio - 19 Agosto 2008
Diario di Daniele Gatti
 
 
Tappa per tappa:
 
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Milano – Londra (Aereo)
Londra – Oslo (Aereo)
Oslo – Stavanger (Treno)
Stavanger – Tau – Preikestolen (Traghetto – Bus)
Stavanger – Bergen (Bus)
Bergen – Myrdal (Treno)
Myrdal – Flam (Treno)
Flam – Bergen (Traghetto)
Bergen – Oslo (Treno)
Oslo – Trondheim (Treno)
Trondheim – Bodø (Treno)
Bodø – Moskenes (Traghetto)
Moskenes - Å (Bus)
Å – Reine – Hamnoy (Bicicletta)
Å – Svolvær (Bus)
Svolvær - Kabelvåg (Bus)
Svolvær - Narvik (Bus)
Narvik – Luleå (Treno)
Luleå – Haparanda/Tornio (Bus)
Haparanda/Tornio – Kemi (Bus)
Kemi – Kuopio (Treno)
Kuopio – Helsinki (Treno)
Helsinki – Stoccolma (Traghetto)
Stoccolma – Vienna (Aereo)
Vienna – Milano (Aereo)

Un sogno a lungo atteso

Il Grande Nord è terra di leggende: vi si narrano a proposito storie mirabolanti di battaglie vichinghe combattute al largo delle coste e sulle spiagge degli sventurati popoli razziati e decimati, di apparizioni di mostruosi kraken marini così grandi da essere scambiati per isole da sventurati marinai in cerca di un riparo e pronti a tirare sott'acqua qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli, di inverni lunghi tre volte il normale che presagiscono al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che porrà la parola fine a questo mondo dopo un’epica lotta in cui tutti si uccideranno per poi ricostruire il mondo intero dall’inizio. Il sole alla mezzanotte non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l’acqua e illuminando costantemente le rocce che si tuffano vertiginosamente in mare senza alcun preavviso, scavate nei millenni dall'acqua lentamente sciolta negli enormi e maestosi ghiacciai montani. Oppure cambia idea e per molti mesi non si mostra, preferendo mandare solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. Queste antiche leggende non hanno mai smesso di affascinarmi profondamente fin da quando non raggiungevo il metro di altezza, facendo sorgere in me il germe dell'amore per queste lande, nato molti anni orsono e mai sopito, fino a quando non ho avuto la reale possibilità di vedere con i miei occhi e calpestare con le mie scarpe queste terre così misteriose. Ognuno sa in cuor suo quali sono i suoi sogni ed è tenuto a custodirli gelosamente finché il destino, a volte beffardo e crudele ma altre così benevolo da concederci dei regali indimenticabili, dia la possibilità di realizzarli, andando ad arricchire il nostro spirito in maniera incalcolabile. La trasformazione interna opera in ogni viaggio che sia affrontato col cuore e con lo spirito giusto, in particolare al viaggio che si fa nel luogo che si è sempre sognato e in un periodo della vita d'oro come sono i vent'anni, quando le energie fisiche e mentali sono al culmine e le speranze sono vivissime, quando si ha voglia di vedere com'è il mondo là fuori, partendo all'avventura portandosi dietro solamente uno zaino pieno dello stretto necessario e la propria voglia di esplorare mondi sempre nuovi. Ventitrè giorni in cui metterci alla prova, per chiederci se siamo ancora capaci di guardare dentro noi stessi e trovare le forze per andare avanti, per cambiare modo di giudicare il mondo all'infuori di noi, per imparare qualcosa di sconosciuto che mai si sarebbe potuto scoprire se non si fosse tentato. Questo è ciò che di meraviglioso ogni viaggio cela: non è solamente una carrellata di nuove terre che appaiono una dopo l’altra davanti agli occhi, immagazzinandosi nella memoria come il rame nei depositi, ma un momento in cui si ha la possibilità di plasmare la propria anima, non permettendole mai di diventare un insensibile pezzo di legno di fronte a ciò che le appare davanti, e costringendola a cambiare. Il cambiamento è vita, l'animale che non si evolve si estingue. O continua a vivere, ma per forza d'inerzia, senza più nulla che lo tenga in vita se non il battito ritmico e stanco di un cuore ormai esangue. Ora che sono tornato, fortunatamente vivo e vegeto, posso dire senz'ombra di dubbio di essere cambiato, attraverso questo percorso lungo, molto articolato e impegnativo, che potrà apparire estremo od ordinario in base all'esperienza di chi legge, ma in ogni caso estremamente intenso e gratificante. Solo in due, armati unicamente di carta geografica e guida turistica, nonchè di biglietto Interrail che ci permette di usufruire quasi liberamente delle linee ferroviarie ovunque in tutta Europa. Il Grande Nord aspettava impaziente, e non aveva più tempo. L'occasione era da prendere al volo, o l’ultimo treno sarebbe partito senza di noi.

Ansia

Siamo seduti in una delle tante aree di sosta per i passeggeri del ben conosciuto e affollato aeroporto della Malpensa, in paziente attesa del primo dei due aerei che ci porteranno fino alla capitale norvegese. Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse migliaia di automobili lasciate poco fa dai viaggiatori che come noi stanno trascinando i loro bagagli su dei pratici carrellini a rotelle, mettendoli uno a uno sul nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro le bande pendenti di plastica flessibile per portarli nei posti più disparati. Mi sento legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore: tutti stiamo lasciando la sicurezza della vita ordinaria per metterci in qualche modo in gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale, da vincere per tornare a casa con un po' più di tesori nel cuore e nella mente di quanti ne avessimo prima di partire. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti senza sosta come formiche, cercando di immaginare cosa celino in quel bagaglio così ingombrante che non passa da qualsiasi check - in ordinario e deve essere incanalato nel trasporto apposito, o in quella borsa così piccola che sembra poter contenere al massimo i vestiti per due giorni, e magari serve per un viaggio di una settimana o più. Chissà se anche gli altri si chiedono ciò guardando noi, ormai muniti solo di zainetto e seduti uno a fianco all’altro con le fattezze simili al punto da essere frequentemente scambiati per fratelli gemelli.

Nonostante le diverse ore di attesa che abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina aspettando che il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi, ma a parte il febbrile movimento dei passeggeri a venire c'è ben poco che possa risvegliare la mia ancora incredula coscienza. Per scaramanzia non voglio immaginarmi nulla di Oslo, le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta arrivato e soprattutto su come ce la caveremo vengono temporaneamente accantonate lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che devo salire su uno di questi mezzi volanti. Una tensione generale che decido di curare solo con le mie forze, calmandomi poco a poco da solo, senza affidarmi a pericolosi sedativi che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. Va a momenti: per qualche minuto credo di essermi calmato definitivamente, per poi sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabile che sono ancora a terra e che la trasvolata non è ancora cominciata.

In questi momenti di attesa mi chiedo se il viaggio che sto per intraprendere non possa essere l’ultimo della mia vita. Non essendo mai stato in procinto di allontanarmi da casa per così tanto tempo, senza tutto ciò a cui sono abituato, avverto una sensazione inspiegabile, come di qualcosa di conclusivo. Difficile capirne i motivi: non si tratta di un pericolo fisico o dovuto alle persone che incontrerò, e nemmeno quello dovuto a un disastro aereo: è completamente differente, posso capirlo solo io. Tutto ciò non fa che aumentare le fitte allo stomaco e i pensieri negativi che stanno lottando contro quelli positivi per avere il sopravvento, ma presto mi convinco che non sto intraprendendo un viaggio di non ritorno: sto per passare le mie tre settimane di vita più belle di sempre! Questo pensiero mi fa subito sentire molto meglio e smetto per un po’ di preoccuparmi.

Qualche ora dopo siamo già in volo a svariate migliaia di metri di altitudine, vedendo piano piano la città di Milano divenire sempre più piccola fino a scomparire una volta superate le nuvole. La visuale esterna è annebbiata ad intermittenza mentre l’aereo attraversa questi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del passaggio oltre le nuvole, lampi di condensa lattiginosa saettano velocissimi scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, fino ad arrivare nuovamente nell’aria pura dove la visuale si riapre, stavolta con un pavimento di nuvole e non di terra. Ora mi rendo conto forse per la prima volta che la situazione in cui mi trovo è definitivamente irreversibile: qualsiasi ripensamento, dubbio o pentimento ormai non ha più senso, viene inghiottito dal veloce sfrecciare dell'aereo che mi porta sempre più lontano da casa alla velocità di quasi ottocento chilometri orari, cancellando ogni barlume di attaccamento alla patria e al sicuro e riparato ambiente casalingo. La gioia spazza via l’inquietudine e la paura, mi sento in una botte di ferro nonostante non sia ancora arrivato a terra. La vista dello splendido stretto della Manica, attraversato per fare scalo intermedio a Heathrow, è la prima conferma di ciò: siamo partiti solo da un’ora e già si vedono i primi frutti da collezionare. Chissà quanti altri ne seguiranno.

Heathrow

L’enorme aeroporto londinese è affollatissimo, colorato ovunque da pannelli luminosi di un giallo sgargiante e riempito in ogni angolo disponibile da boutiques e negozi di ogni genere. La scena di poche ore prima si ripete, ma con qualche lieve differenza: la tensione che mi attanagliava le viscere ora è completamente svanita, mi sento già arrivato a destinazione e quasi non penso al secondo aereo che prenderò di lì a non molto. Se sono sopravvissuto al primo, non potrà succedere più nulla di male. Pigramente seduti su una panchina di legno inganniamo il tempo osservando un padre che rincorre lentamente il figlioletto di pochi anni che si nasconde continuamente dietro le colonne, ingenuamente convinto di non esser visto. Paiono proprio divertirsi: non si curano di nulla di quello che hanno di fianco, nè di noi che li fissiamo, nè delle donne delle pulizie che svuotano i cestini pieni fino all'orlo a due passi da loro, nè degli altri passeggeri che a volte devono scansarsi leggermente per non essere investiti dal vivace marmocchio, nè degli avvisi all'altoparlante che annunciano l'ultima chiamata per imbarcarsi su un dato volo. Sto cominciando a ciondolare di lato con la testa, la lunga attesa mista alla monotonia dell'atmosfera di aeroporto mi sta leggermente snervando, mi distraggo nuovamente ascoltando un po' di musica quando padre e figlio se ne vanno dai dintorni delle colonne lasciandoli vuoti. Le rabbiose ed intense melodie di chitarra e basso che scaturiscono dagli auricolari accelerano notevolmente il trascorrere del tempo, fino a quando appare finalmente sul tabellone il numero del nostro terminale, a lungo scommesso tra noi. Presto siamo nuovamente allacciati strettamente alle poltrone con il sibilo delle potenti turbine che si fa sempre più forte, accelerando vertiginosamente e librandoci ancora una volta nell'aria per raggiungere finalmente la tanto agognata Oslo. Le utili televisioncine di bordo tengono traccia della posizione dell’ aereo minuto per minuto, con tanto di striscia colorata che si allunga progressivamente.
Presto sono visibili i primi accenni della notoriamente frastagliata costa nordica: sembra che qualcuno si sia divertito a sbriciolare un’enorme torta di terra, lasciando i rimasugli sul bordo a formare una cortina che avvolge la costa ancora rimasta intera. Tante, tantissime isolette, alcune minuscole altre più estese, che non lasciano nemmeno un pezzettino di litorale diritto e regolare. Osservarle è un piacere, mentre l'aereo scende al ritmo di dieci metri al secondo definendo sempre più i particolari alla nostra vista. Intravedendo i primi sprazzi di città, la curiosità sale: ora mi rifaccio la domanda che a Malpensa ho temporaneamente accantonato. Come si presenterà Oslo ai miei occhi? Sarà una meraviglia di architettura nordica da lasciare senza fiato, od un'ordinaria città senza arte nè parte?

Lufthavn

Le sorprese ad Oslo non mancano, a cominciare dall'aeroporto: la prima cosa che ci colpisce è un interminabile corridoio di legno da percorrere in compagnia di sorprendentemente poche persone, in un calore asfissiante dovuto alla mancanza di ricambio d'aria e al sole che trafigge i vetri da parecchie ore, implacabile. Nei pochi metri che ci separano dall'ambiente climatizzato cominciamo già a sudare abbondantemente sotto le nostre felpe pesanti, impreparati a questo sbalzo termico così severo. È dalla tarda mattinata che non possiamo uscire a respirare l'aria fresca dell'esterno: fortunatamente nel locale check – out il climatizzatore funziona e smettiamo di fondere sotto i vestiti. Gli imprevisti non sono però finiti: proprio davanti a noi nella fila c’è una numerosa famiglia di colore, probabilmente proveniente dall’Africa nera, i cui componenti devono essere chiamati tutti per nome, con conseguente grossa perdita di tempo. Alla fine il controllore di aeroporto scoppia a ridere insieme a tutta la famiglia, per quella situazione così imbarazzante. Quando la conta degli impronunciabili nomi finisce e l’ultimo corridoio è finalmente terminato, possiamo uscire: dopo ore e ore costretti al chiuso respiriamo a pieni polmoni la fresca aria esterna per ossigenarci il sangue a dovere, subito prima di iniziare a correre per prendere il primo treno appositamente istituito per fare spola dall'aeroporto fino alla città. Tra pochissimo percorrerà i quarantasette chilometri che separano i due, e non abbiamo nessuna intenzione di perdere subito il primo treno, avendo davanti un intero viaggio composto in gran parte da spostamenti su binari. Sarebbe scoraggiante cominciare male. Per fortuna saliamo a bordo poco prima che parta, e ciò lascia ben presagire per il futuro di tutta la vacanza: si sa che chi ben comincia è a metà dell’opera.

Oslo

Da una prima occhiata veloce al mezzo in cui ci troviamo, vediamo subito di essere finiti in un paese molto avanzato tecnologicamente e socialmente: la carrozza è spaziosa, i vetri e i sedili sono perfettamente puliti, le indicazioni molto chiare: ogni fermata è segnalata sia a voce che a video in più lingue, scorrono informazioni supplementari, non c'è la possibilità di sbagliare nemmeno volendo. Faticosamente incastrati i nostri ingombranti bagagli tra i sedili quasi tutti vuoti, riprendiamo fiato e possiamo rilassarci godendoci dal finestrino il primo accenno dell’inconfondibile panorama norvegese: campi brulli e sterminati, ogni tanto qualche casetta rossa sperduta in cima a una collinetta, mucche al pascolo libere, con il sole che accenna appena un tramonto sull'orizzonte. Un primo momento di rilassata curiosità e di contatto con la natura locale che ci ristora un po' dalla stancante trasvolata e ci mette di ottimo umore. Osservo curiosamente tutto ciò che mi appare dal finestrino: voglio assimilare fin da subito il più possibile della Norvegia, stampandomi in mente le prime decisive immagini che saranno quelle che ricorderò in modo particolare quando tornerò a casa: ciò che si vede e si fa per la prima volta ha un sapore speciale ed irripetibile. La stazione centrale in cui arriviamo poco dopo ha un ottimo aspetto, con degli enormi tabelloni infissi a parecchi metri di altezza che segnano decine di partenze con tutte le informazioni in perfetta vista. Non c'è una carta per terra nemmeno a pagarla e tutto sembra organizzato con razionalità e senso pratico. Non abbiamo molto tempo per trovare il nostro ostello, che scopriamo essere situato a qualche chilometro dalla stazione, ovviamente da percorrere a piedi con tutto il bagaglio sulle spalle. Il mio compagno Davide, col suo ottimo senso di orientamento e una capacità straordinaria di lettura veloce delle cartine e delle guide turistiche, trova subito il nostro percorso: un paio di chilometri in tutto. Così ci incamminiamo per le vie del centro, voltando lo sguardo qua e là in preda alla prima montante curiosità. La prima impressione è contrastante: Oslo non pare molto diversa da una normale capitale europea. Sono poche le costruzioni di fattura nordica chiaramente riconoscibile, la maggior parte degli edifici è squadrata ed ordinaria. Lavori in corso ovunque, con buche aperte e montagne di ghiaia, rendono un po’ difficoltoso percorrere le stradine, costringendoci spesso a noiose deviazioni. Un tale più morto che vivo è finito dentro un cassonetto e la polizia sta cercando di tirarlo fuori con vani tentativi, fermandosi spesso per valutare le sue condizioni psicofisiche. Intersecando spesso le vuote rotaie dei tram prendiamo l’ultimo vialone in fondo al quale sta il nostro primo alloggio.
Il dormitorio si rivela abbastanza spartano ma tutto sommato accogliente. I nostri compagni di stanza sono tre uomini che viaggiano indipendenti come noi, il più giovane dei quali ha circa trent'anni: sono un cipriota, un indiano e un altro di nazionalità a noi sconosciuta ma probabilmente tedesca, dato che ha l’abitudine di bere la birra a colazione. Il cipriota, capelli molto corti ed espressione curiosa, si rivela subito molto cordiale e loquace con noi, da cui iniziamo a raccontarci un po’ le nostre aspettative di viaggio, cosa faremo domani, dove andremo dopodomani e così via, scoprendo molte analogie tra il suo programma di viaggio e il nostro. Del resto, i posti da visitare in Norvegia sono sempre gli stessi: non è uno stato così grande da permettere decine di itinerari. Ci sistemiamo alla bell'e meglio, affittando le lenzuola per non dover dormire su materassi di gommapiuma totalmente antitraspiranti e decisamente poco igienici, visto lo sporco che li copre. Appena ricevute e profumatamente pagate, tentiamo di infilare il materasso nel copriletto a tasca, con delle manovre tragicomiche che divertono non poco l’amico cipriota, intervenuto più volte per darci consigli su come operare. Dopo svariati minuti abbiamo successo e possiamo incastrare i materassi nei letti di legno per non smuoverli più.
Ormai sono quasi le undici di sera: grande la sorpresa nel leggere il quadrante dell’orologio, è ancora chiaro come di giorno! Le alte latitudini a cui ci troviamo fanno sì che d’estate il sole tardi a scomparire sotto l’orizzonte, un fenomeno davvero curioso ed inusuale. Nelle parti più settentrionali avviene il fenomeno delle “notti bianche”, che è una sorta di sole di mezzanotte incompleto: il sole tramonta, ma la luce che rimane fa sembrare la notte molto simile al giorno. Avremo modo di vederne delle belle prossimamente. Ci infiliamo sotto le spiegazzatissime lenzuola a recuperare un po’ di forze, per essere pronti a dare il meglio domani.

Il negozio di dolciumi

Mi sveglio decisamente poco riposato: un vicino di letto tedesco che russa è un metodo formidabile per passare una notte movimentata ed insonne. Davide ha dormito tranquillamente, senza mai svegliarsi: io me ne starei volentieri a letto per dormire adesso visto che stanotte mi sono svegliato come minimo dieci volte, ma non c’è tempo per poltrire: Oslo ci sta aspettando. Non sapendo assolutamente dove e cosa mangiare per colazione, optiamo per un negozietto che abbiamo visto en passant la sera precedente, proprio a due passi da noi, sperando di trovare qualcosa di sufficientemente nutriente per tenerci in piedi tutta la mattinata. Sembra un normale negozio di alimentari, ma entrando scopriamo che non è esattamente così: in tutte le città nordiche sono molto diffusi questi pseudo-negozi specializzati unicamente nella vendita di caramelle, dolciumi vari ripieni di cioccolato fino quasi a scoppiare, cioccolata, bibite gassate, salatini, patatine e poco altro di sano. Chi ci capitasse dentro in cerca di qualcosa di sostanzioso da consumare per pranzo, rimarrebbe decisamente deluso! Scegliamo ciò che ci sembra più innocuo: una banale aranciata. Si rivela semplicemente imbevibile: è gassata e zuccherata ad un livello tale da costringermi a buttare via la mia bottiglietta dopo solo qualche sorso, appena sufficiente a placare la sete. Non voglio certamente farmi venire un tumore allo stomaco alla mia età. Maledicendo le abitudini alimentari nordiche e contando di mangiare meglio prossimamente, ci dirigiamo finalmente verso il centro della città.

Oslo

La prima zona che raggiungiamo è quella portuale: su di essa si erge una strana costruzione quasi interamente bianca e lucente, che si rivela essere il prestigioso Teatro d'Opera. È l’unico edificio che colpisce seriamente il nostro sguardo, nella normalità generale nella quale niente spicca particolarmente sul resto. Ha dei gradini volutamente irregolari messi ad ampi intervalli, che spezzano la monotonia delle rampe levigate, e domina fieramente la scena marittima composta da numerosi promontori naturali e da rientranze create dall'irregolare costa norvegese. Il sole è cocente: i suoi raggi leggermente più inclinati dal cambio di latitudine sono ugualmente molto carichi di energia. Lo sentiamo presto sulla nostra pelle, iniziando a sudare copiosamente sotto i nostri maglioni scuri che assorbono moltissimo la radiazione solare riflettendone solo una percentuale infima.
Le strade sono ben fornite di piste ciclabili munite di semaforino regolatore, sottopassaggi e sovrappassaggi, dando un'aria di funzionalità e di sicurezza quasi palpabile. Anche il traffico è perfettamente scorrevole e non ci sono ingorghi di alcun tipo. I semafori per l'attraversamento pedonale sono tutti muniti di segnale acustico per i non vedenti, e non c'è automobilista che non si fermi per lasciarci passare sulle strisce zebrate. Non uno. Abituati a tutt’altro trattamento, non riusciamo a credere a ciò che vediamo, ovvero automobilisti che rallentano e si arrestano prontamente quando solo diamo l’impressione di voler tentare un attraversamento. Quando li ringraziamo agitando la mano ed affrettando il passo come da perfetta tradizione italiana, notiamo una certa sorpresa da parte loro: perché questi mi stanno ringraziando quando ho solo fatto il mio piccolo dovere civile? Ma forse non conoscono certe scene che in Italia sono la norma…
Anche dal punto di vista della criminalità, le città nordiche sono molto sicure, e non è solo una frase di circostanza scritta sulle guide turistiche: mai nessuno che ci abbia infastidito, mai una scena di violenza, mai avuto problemi con la gente del posto nè con i numerosissimi immigrati di ogni nazionalità che popolano le città, Oslo in particolare. Gli abitanti del posto sono proprio come vengono descritti: tranquilli e piuttosto riservati, ma all’occorrenza anche socievoli ed ospitali. Ho sempre pensato che sarei dovuto nascere qui in Norvegia: il mio carattere sarebbe stato molto più adatto a questa cultura.

La prima delle nostre numerose mete culturali programmate è il museo dei vecchi residuati bellici. La nostra benemerita carta studenti internazionale del CTS ci garantisce un cospicuo sconto sull’entrata in tutti i musei, e a prezzo ridotto possiamo ammirare una lunga fila di bombarde e cannoni ancora inquietanti nonostante non sparino più da parecchi decenni. Fanno da contorno a due impressionanti carri armati un po’ arrugginiti ma ancora integri, del peso di quasi cinquanta tonnellate l'uno come recita il pannello informativo. La bocca di fuoco è ormai dormiente ma non per questo meno minacciosa. All'interno invece v'è ogni tipo di arma da guerra esistente, dalle umili baionette fino ai potenti siluri da sottomarino, uno dei quali veramente da rimanere a bocca aperta: oltre sette metri di lunghezza per trecento chilogrammi di peso, un mostro di latta grigiastra e perfettamente liscia, dalla potenza distruttiva grande tanto quanto la sua insensatezza e la scelleratezza di chi l'ha progettato e costruito. È poi il turno di un famoso castello di epoca medioevale dagli enormi e luminosi saloni e dalle suggestive viuzze lastricate che lo circondano, immortale nella sua enorme storia che ha alle spalle. Sul lato rivolto verso il centro cittadino si stagliano fieri non pochi cannoni di colore verdognolo che sembrano puntare direttamente al porto per distruggerlo, l'effetto è molto realistico nonostante siano ovviamente solo ornamentali. Una volta camminato su ogni bastione e visitato tutto questo gioiello medioevale da cima a fondo, possiamo darci all'ozio in una delle numerose panchine nelle vicinanze, finalmente all'ombra. Siamo appena all'inizio delle nostre camminate, ma i nostri piedi fin troppo lisci e disabituati iniziano già a soffrire: le vesciche, croce di ogni viaggiatore insieme ai disturbi gastro - intestinali, stanno aspettando solamente il momento giusto per comparire e rovinarci le giornate. Escogito subito un sistema molto artigianale per eliminare il problema: il cerotto di seta bianca rimasto nelle mie tasche dopo il mio ultimo tirocinio ospedaliero nel reparto neurochirurgico si rivela eccezionale per ridurre gli attriti sulle parti più sensibili della pianta del piede e risolvere quasi radicalmente il problema. Devo però stare attento a sistemarlo senza formare pieghe, o le tali grinze potrebbero peggiorare gli strofinii e causare lesioni anche più fastidiose, ma faccio un lavoro perfetto, da vero studente infermiere al secondo anno: presto il problema è dimenticato e siamo nuovamente pronti ad affrontare lunghe camminate.

Passando per il lungomare troviamo lo squadrato ed altissimo municipio di mattoni rossi e il palazzo dove avviene la consegna del premio Nobèl per la pace. Non tutti i premi Nobèl vengono però consegnati qui: quelli per le materie scientifiche e letterarie vengono assegnati nella cugina Svezia. Il viale è decorato da lunghi filari di fiori colorati, mentre qualche barca a vela ormeggiata mostra i suoi alberi maestri, spogli da vele. Presto ci troviamo a camminare sul conosciuto Karl Johans Gate, il principale viale della città su cui si trovano la gran parte degli edifici storici: il Palazzo Reale ottocentesco, l'Università anch'essa dello stesso periodo, e non meno importante il Parlamento. Si tratta di un edificio molto sfarzoso e barocco, ma utilizzato dai politici nel nome dell’effettivo interesse dei propri cittadini e non solo del proprio, o se va bene del proprio gruppo di casta sociale, come succede in qualche bel Paese di cui non cito il nome ma che si può facilmente intuire. Il vialone è lungo più di un chilometro e mezzo, e alla vista dall'estremità in rilievo è semplicemente splendido: sul lato destro, quasi del tutto sgombro da edifici e palazzine, si trovano fontane dalle forme più bizzarre, aiuole di fiori variopinti, statue intervallate da chioschi gastronomici che vendono piatti tipici con ottimi profitti. Il viavai di persone è continuo, la strada non sembra mai svuotarsi, per giunta è l'ora di punta, ma la densità umana è ancora entro i limiti del sopportabile. I numerosi alberi e le panchine disposte strategicamente ci riservano un po’ di ombra e riposo, necessari periodicamente per riportarci in temperatura con il sole che si fa sempre più implacabile.

La gente che si incontra è di tutte le nazionalità: i norvegesi si riconoscono subito, con i loro capelli biondi e la corporatura piuttosto robusta, ma sono numerose anche le persone di carnagione scura, musulmani in quantità, frotte di giapponesi e soprattutto di italiani: come una maledizione strisciante, sentiamo dovunque ci giriamo parlare il nostro idioma, chi discretamente e senza dar fastidio a nessuno, chi così sguaiatamente da venir voglia di tagliargli la lingua. La nostra nazionalità non ci permette di lamentarci, non siamo niente in più di loro per avere il diritto di essere lì, ma arrivare in un posto distante qualche migliaio di chilometri da casa e sentire ancora parlare nella propria lingua può essere veramente seccante. In ogni caso gli italiani all’estero sono l'ultimo dei nostri problemi: le voci dei nostri connazionali passano in secondo, in terzo e progressivamente minor piano, mentre percorriamo questo ricchissimo viale, in cui ad ogni metro c'è una sorpresa nuova.
Presto sentiamo gli effetti del caldo, degli inutili vestiti pesanti che abbiamo addosso e dello stomaco che brontola senza poter essere calmato da qualche sorso d’acqua: dopo tutto questo sole e questo camminare abbiamo proprio voglia di fermarci, ma non c’è nessun posto che non appaia costosissimo. Ad un passo dal vaneggiamento, mentre giungiamo in una confluenza con densità di passanti e di venditori ambulanti elevatissima, scorgiamo per miracolo un fast food al quale ci fermiamo per un'oretta, tempo in cui sentiamo la vita rifiorire nuovamente in noi, nonostante all'interno faccia caldo tanto quanto all'esterno. Riempito lo stomaco ripartiamo cercando il Munch Museum, logicamente dedicato al grande pittore nato a Løten, nel sud della Norvegia. Contiene però solo le copie dei dipinti più famosi, come l'Urlo e la Madonna: i veri dipinti sono in un altro museo sempre qui ad Oslo. Non essendo un grande appassionato d'arte, i musei non sono il mio pane, ma non possiamo di certo perderci una delle attrazioni più famose della città. La visita passa veloce, tra i miei sguardi distratti e sfuggenti che si soffermano solo su ciò che pare straordinario a prima vista, contrapposti a quelli più attenti e prolungati del mio compagno, maggiormente avvezzo ai musei pittorici e ben più ferrato di me in materia artistica, che riesce a cogliere più sfumature nascoste che a me passano sotto gli occhi senza fermarsi. Passiamo il resto del pomeriggio stesi sull'erba del parchetto appena lì fuori, a respirare aria pulita sotto qualche frondoso albero, giocando a briscola per ingannare il tempo, senza obblighi nè doveri di alcun genere. Questo è l'aspetto più bello di un viaggio non organizzato, soprattutto se affrontato in pochi: è infinitamente più facile trovarsi d'accordo e decidere cosa fare. Non è vero nemmeno che un viaggio lungo in due persone debba esser per forza noioso: tutto dipende dalle risorse interne di ognuno, dalla capacità di recepire gli stimoli, e ovviamente da dove si va. Sicuramente il Nord non è un posto dove ci si può annoiare: troppe e troppo belle le cose da vedere e da fare. E siamo solo all’inizio, chi può immaginare cosa succederà ora della fine? Il solo pensiero infiamma di forze e di energie, la sensazione dell’ignoto è fantastica.

Il tedesco entra dalla porta dell’ostello con fare gongolante, pochi minuti dopo il nostro ritorno, declamando "I'm drunk and happy!", ovvero: sono ubriaco e felice. Subito dopo inizia a lamentarsi animatamente con il mite cipriota, a proposito dell’indiano che lascia sempre tutte le finestre chiuse quando esce per ultimo dalla camera. Come ci si poteva aspettare, la stanza è diventata un forno, e aleggia pure un certo odorino lieve ma persistente. La battuta del tedesco è esilarante: "Ma da dove viene questo, dall'inferno?". Risate assicurate per qualche minuto, poi piano piano torna la calma e ci troviamo a chiacchierare con il cipriota a proposito della politica italiana: vuole sapere qualcosa di questa famosa Mafia, che tipo di organizzazione sia, dove stiano le mele marce in Italia. Dopo averlo informato dell’alto livello di corruzione e collusione mafiosa dei politici nostrani, sentiamo i primi morsi della fame. Non abbiamo certamente voglia di spendere tutti i nostri risparmi per mangiare qualcosa di decente, così ripieghiamo su un minuscolo ristorantello consigliatoci dai gentilissimi gestori dell'ostello: è gestito da turchi che cucinano pizza e kebab, e che parlano a malapena l'inglese. Una pizza Margherita sarà l'ultima cibaria con una qualche parvenza di italiano che mangeremo di lì alla fine della vacanza. Dopo cena tocca di nuovo ad una camminata nell'arteria principale della città, stavolta con un'atmosfera tutta particolare: nuvoloni neri solcati da qualche raro fulmine ci fanno compagnia, ma senza pioggia. La luce è quasi irreale, sembra un'alba, ma senza sole. Seduti di spalle al Palazzo dei Congressi, con tutto il viale illuminato dritto davanti a noi che si estende a perdita d'occhio, rimaniamo fermi ad osservare senza pronunciar parola, affascinati dall’atmosfera di vita notturna che si avverte. Un tuono un po’ troppo forte ci spinge a muoverci per tornare al coperto, ma ci perdiamo nelle intricate vie del centro proprio mentre sta infuriando la parte peggiore dell'acquazzone, che ci infradicia impietosamente. Ritrovata la via giusta, rientriamo bagnati come pulcini e altrettanto sudati, crollando sui letti vergognosamente sfatti. Nessuno ha voglia di sistemarli, dovranno rimanere così solo per poco ancora…

Crampi

In un orario imprecisato oltre la mezzanotte vorrei seriamente alzarmi per strozzare il tedesco: sta russando anche di più della scorsa notte. Fargli il classico “pissi pissi” non serve a nulla, anzi peggiora la situazione: il russamento aumenta a livelli vertiginosi proprio mentre tento di svegliarlo con il classico sibilo. Di conseguenza passo un’altra notte disturbata, e la mattina presto voglio perlomeno fare una colazione decente. Riproviamo al solito negozietto sperando ci sia qualcosa di meglio di quelle orribili aranciate, e stavolta siamo più fortunati: c'è un distributore automatico di caffè, latte e tè che ieri non abbiamo notato. Non si capisce esattamente come funzioni, da cui i primi risultati non sono esaltanti: sforno un caffelatte terribilmente annacquato, che getto nei rifiuti riuscendo anche ad ustionarmi una mano. Quando riusciamo a produrre qualcosa di decente, paghiamo con le nostre monete norvegesi curiosamente bucate al centro e iniziamo a buttare giù tutto voluttuosamente: abbondiamo con le bustine di zucchero e contorniamo con biscotti anch’essi dall’alto tasso di saccarosio. Non l’avessimo mai fatto. Lì per lì ci sembra di stare benissimo, ma presto il corpo presenta il suo conto da pagare: appena entrati nel supermercato distante qualche centinaio di metri, sentiamo entrambi l’intestino contrarsi rabbiosamente, costringendoci a posare subito il cestino di plastica appena tolto dalla pila e a tornare precipitosamente in ostello in cerca di un bagno. Ci riprendiamo dall'attacco di diarrea dopo circa tre quarti d'ora decisamente spiacevoli, e quando ci sembra che i movimenti interni si siano placati definitivamente ritentiamo con la spesa. Stavolta abbiamo successo. Non abbiamo però molta scelta su cosa comprare: possiamo permetterci solo dei panini di gomma con la spiccata tendenza a sfaldarsi, mortadella svenuta in bustina, qualche porcheria di dolciumi e solo raramente della frutta. La qualità del cibo non è una delle nostre principali priorità: basta che ci tenga in piedi, per comprare qualcosa di più gustoso è meglio aspettare di tornare in un Paese dove la vita costa meno!

Opere d’arte

Dobbiamo sloggiare, il tempo per il check – out è ormai agli sgoccioli. Il cipriota ci saluta dicendo con fare amichevole "Italian Mafia is leaving!", emblematica espressione della considerazione di cui godiamo all'estero. Ricambiamo il saluto a quello che è stato uno dei nostri migliori compagni d’ostello nell’intero viaggio, e riprendiamo la via per la stazione. Depositiamo i bagagli nei lockers a pagamento e prendiamo la strada per un altro importante museo d'arte, quello in cui si trova il vero Urlo di Munch, recuperato per l'ennesima volta dopo l'ennesimo furto. Effettivamente, non è protetto da chissà quale sistema di sicurezza, ma è semplicemente appeso come tutti gli altri quadri, solo in una posizione un po’ più appartata. Essere davanti a questo quadro così famoso, presente su tutti i libri d’arte che ho comprato alle elementari, medie e superiori, non mi riempie di particolare ammirazione o curiosità. In compenso non posso fare a meno di esaltarmi quando vedo, gigantesco sul muro, la Caccia Selvaggia di Odino: il quadro di Peter Arbo a cui si è ispirato il musicista metal svedese Quorthon per la copertina di un suo album. L’orda divina rappresentata trasuda epicità da ogni pennellata, quella stessa epicità che impregna ogni composizione artistica partorita in queste terre. Tocca poi ad una carrellata di quadri naturalistici davvero fantastici che entusiasmano anche me nonostante non sia minimamente appassionato di pittura. Raffigurano paesaggi più o meno inventati dell'estremo Nord: un preludio di ciò che ci aspetta? Semplice fantasia degli artisti? Lo scopriremo tra una decina di giorni.

Il villaggio

Finiti i quadri, è l’ora di un deciso cambiamento di programma: un villaggio tipico norvegese, ora riadattato a museo. Casette di legno a tetto spiovente, dai colori più disparati che spaziano dal giallo al rosso vivo, fino all'azzurrino. Piccoli cortili circondati da bianche staccionate. Finestrelle anch'esse contornate di bianco e munite di tripli vetri per isolare meglio dalle rigide temperature dei mesi invernali, e rossi interni così angusti e raccolti, che lasciano a malapena lo spazio per muoversi. Fanno venire una voglia incredibile di abitarci, per la loro atmosfera così antica e suggestiva e gli spazi così piccoli che ispirano protezione e riservatezza. È davvero affascinante vedere come vivevano i norvegesi fino a non molto tempo fa, e come qualcuno vive tuttora: queste casette hanno un che di fiabesco. Una bambina vestita di abiti tradizionali sta preparando un caffè in una delle stamberghe, con la probabile madre che stende i panni fuori, anch’essa vestita come una fiera donna vichinga. Nei loro occhi chiari si legge l’attaccamento alle tradizioni che ha questa gente, che mai rinnegherebbe il suo glorioso passato e le fantastiche conquiste che ha ottenuto. La riproduzione del villaggio è organizzata ed inscenata alla perfezione: c’è da domandarsi se non vivano davvero lì. Oltre vi sono capanne su palafitte dalle strane forme oblunghe o irregolari, interamente costruite in legno scuro non verniciato. Buona parte hanno l'erba che cresce sul tetto, come se fossero emerse direttamente dal bosco selvaggio. Un divertente particolare che però ha anche un risvolto ecologico non indifferente: se tutte le case al mondo avessero l’erba sul tetto, chissà quanto ossigeno in più ci sarebbe nell’atmosfera!
Rimaniamo veramente colpiti da ciò che vediamo, e proseguiamo lungo il sentiero battuto con crescente meraviglia. Incrociamo qualche maiale che grufola allegramente nel suo cortile rotolandosi nel fango senza timore di sporcarsi, poi un socievole gatto a pelo corto che non ci teme e si lascia accarezzare fiducioso, strusciandosi sulle nostre gambe come fanno tutti i gatti per salutare gli esseri umani di cui ritengono di potersi fidare. Sono animali splendidi, racchiudono in essi qualcosa di regale, e non smetterò mai di considerarli come gli animali più belli del mondo.

Agli sgoccioli

Le nostre gambe stanno iniziando a dare segni di cedimento dopo tutto questo camminare senza sosta, da cui ci fermiamo all’ombra di qualche albero per mettere qualcosa sotto i denti, guardando un gruppo di bambini giocare con dei trampoli. Una panchina su cui sederci è ora un toccasana, ci rimaniamo per un’oretta, prima di partire per la prossima destinazione, da raggiungere in autobus: il museo delle navi vichinghe. In realtà è un unico stanzone in cui si trovano tre relitti di drakkar, le navi da guerra vichinghe dalla caratteristica prua a spirale, che nel caso delle navi più grandi è talvolta modellata per assumere la forma di animali mostruosi come serpenti marini e draghi, necessari per incutere timore al nemico e proteggersi dalla malvagità delle mitiche creature marittime. Pur belle che siano, nel piccolo museo non c'è altro, da cui usciamo presto per darci nuovamente al relax sull'erba. Ormai la visita di Oslo e dintorni sta volgendo al termine, ci aspetta verso tarda sera il treno per Stavanger. Via, verso la stazione, salutando questa ambigua città forse non così splendida come ce la saremmo aspettata, un po’ difficile da digerire e comprendere ma comunque dotata della sua buona fetta di fascino ed interesse.

Cinque ore è il tempo che dobbiamo far passare prima di prendere il notturno, un’attesa che può essere lunga per chi è abituato da tempo ad aspettare al massimo un quarto d'ora per l'autobus, o può essere brevissima per chi è abituato a viaggiare in lande sterminate dove i viaggi in treno durano giorni. In quelle ore passiamo il tempo a rielaborare ciò che abbiamo appena visto: osserviamo l'apparente freddezza degli sguardi dei nordici, i negozi con gli articoli a prezzo decisamente elevato, le fornitissime ed ubiquitarie librerie atte a soddisfare la risaputa passione degli abitanti per la lettura. Per ammazzare il tempo risaliamo sul Teatro d'Opera, rischiando costantemente di inciampare negli insidiosi gradini. Dalla cima ci godiamo un tramonto un po’ nuvoloso, e prendiamo anche qualche goccia di pioggia che inizia a cadere proprio mentre decidiamo di rientrare. La brezza si fa sempre più tesa, è meglio ripararsi al caldo.

Notte in treno

Questa notte dormirò per la prima volta in vita mia su di un treno, e mi sento decisamente preoccupato viste le grosse difficoltà che ho nel dormire seduto: non mi riesce assolutamente, nemmeno dopo viaggi di ore e ore in automobile o in pullman, in cui spesso sono l’unico oltre al guidatore a rimanere sveglio. In ogni caso i treni notturni ci sono molto utili, non possiamo lesinare su di essi: il risparmio che ci garantiscono in termini di notti in ostello non pagate e soprattutto di ore utili guadagnate per girare è notevole, e ciò può essere decisivo in un economia di ventitrè giorni, apparentemente numerosi ma in realtà molto compressi e talvolta incerti. Il treno finalmente arriva al quarto binario, i nostri posti prenotati alla cieca si rivelano tutto sommato comodi: gli organizzatori ci hanno gentilmente lasciato mascherina per gli occhi, coperta e tappi per le orecchie, tutto incluso nel prezzo, quasi completamente azzerato dal biglietto interrail. Il sedile si può reclinare ma non sufficientemente per stare sdraiato come vorrei, da cui mi preparo ad una notte difficile. Penso però che sarebbe potuta andarmi molto peggio: nei posti immediatamente dietro di noi gli schienali dei sedili non si possono abbassare nemmeno di un millimetro, essendo a contrasto direttamente con la parete posteriore della cabina. Il controllore passa tra i sedili subito dopo la partenza in cerca di sprovveduti senza biglietto, non trovandone nessuno, e una volta finito il suo giro le luci vengono messe in notturna. Forse questo mi aiuterà un po’ a prendere sonno, penso...

Niente da fare. Dopo due ore sono ancora al punto di partenza, continuo a rigirarmi nel sedile in cerca di una posizione conciliante il sonno, ma senza il benchè minimo risultato. Tuttalpiù riesco a distruggermi qualche vertebra del collo per averlo tenuto piegato di lato troppo tempo senza accorgermi della posizione scomoda. Comincio ad irritarmi, ma non ci posso fare niente. Davide, che non ha di questi problemi, si è già addormentato da un pezzo. Io mi rassegno a passare la notte in bianco, ma una piccola consolazione c'è: quella di vedere la luce del sole sotto l'orizzonte a notte inoltrata, scena che non mi era mai balzata davanti agli occhi prima d'ora. Questo spettacolo mi riscuote dall’apatia dell’accennato pre-sonno e mi allieta un po’ il viaggio: non capita tutti i giorni di vedere la luce a quest’ora, seppur lieve ed accennata. Il sole è nascosto dietro le montagne, ma non è lontano…i suoi tenui raggi creano un’aura di colori sbiaditi attorno alle creste delle montagne, un altro momento che mi si scolpisce in mente e che se avessi dormito mi sarei perso.
Intanto arrivano le ore piccole. Gli sbadigli si fanno sempre più frequenti ed estenuanti, la voglia di addormentarmi aumenta. Il sonno a tratti è addirittura violento, ma non ce n'è: la posizione semiseduta rovina tutti i miei sforzi, sia che tenti di rilassarmi e non pensare a niente, sia che ricerchi la posizione più comoda in un continuo rigirarsi senza tregua. Il massimo che riesco a fare è cadere in uno stato di trance che potrei definire come dormiveglia profondo, ma che non diventa mai sonno vero, se non per pochissimi insignificanti minuti, di cui non ho memoria nè certezza. La notte passa lentamente, ma passa, come le lunghe notti in ospedale che alle sei di mattina finalmente finiscono...e alle sette l’agonia termina. Siamo arrivati.

Stavanger

Questa cittadina di oltre centomila abitanti è famosa per la fiorente industria petrolifera che ospita, ma non offre alcuna attrazione turistica di rilievo. L’unica cosa che abbia una parvenza artistica è un simpatico laghetto circolare posto proprio di fronte all’uscita della stazione che stiamo attraversando in questo momento, ancora un po’ disorientati e infastiditi dallo sbalzo di temperatura con l’esterno. Una fontanella posta proprio al centro del laghetto spruzza acqua in ogni direzione, costantemente. Non abbiamo tempo di osservare la scena, dobbiamo trovare in fretta un ufficio informazioni: solo lì ci potranno dire dove si trova il nostro ostello prenotato in anticipo, e soprattutto come dobbiamo fare per effettuare la gita al Preikestolen, il vero motivo per cui siamo qui. Tradotto in italiano come “Roccia Pulpito”, si tratta di una mastodontica roccia a forma di parallelepipedo, strapiombante per seicento metri sull’oceano Atlantico. Una meraviglia di architettura naturale ed una tappa irrinunciabile per qualsiasi viaggiatore che approdi in Norvegia. La febbre della conquista brucia in noi, ansiosi come siamo di conquistare anche questa meta, ma le cose iniziano ad andare storte: orientarsi a Stavanger, della quale non sappiamo nulla, non è per niente facile, e il tempo a nostra disposizione è fin dall'inizio molto scarso. Non possiamo certo tentare la salita alla Roccia con gli zaini pesanti sulle spalle, nemmeno nel più sconsiderato impeto di spirito d'avventura estrema. Non arriveremmo in cima vivi portandoci dietro tutti i vestiti, le guide turistiche e gli accessori per l’igiene, lì completamente inutili. Così dobbiamo lasciarli in ostello od in alternativa nelle casseforti della stazione dei traghetti, di cui ignoriamo l’ubicazione. Calcolando male i rischi optiamo per il deposito in ostello, decisamente lontano e irraggiungibile a piedi dalla stazione. Per arrivarci bisogna prendere uno dei numerosi bus urbani che servono il paese in ogni angolo, per poi logicamente riprendere lo stesso bus e tornare indietro...un piano azzardato e rischioso.

Con una veloce puntatina al per nulla vicino ufficio informazioni, e con il successivo aiuto di un autista di pullman fermo sul ciglio della strada, riusciamo a trovare la fermata giusta per raggiungere l’ostello. Lì incontriamo una signora che parla italiano, infatti arriva da Chiasso, pochissimo oltre al confine tra Svizzera ed Italia: è proprio vero che il mondo è piccolo! Dopo averci parlato dei suoi parenti che abitano all'isola d'Elba, nemmeno troppo distante dal paesino di nome Lacona in cui sono stato un paio di volte in vacanza e che lei conosce, ci chiede la nostra destinazione: essendo abitante del posto da tantissimi anni, ci può dare delle informazioni molto utili su come muoversi in paese e su quali fermate preferire per il nostro programma. La ringraziamo moltissimo per il vitale aiuto e scendiamo alla fermata da lei indicata, la terza dopo che lei ha abbandonato l’autobus. Il problema è che di quest'ostello non v'è nemmeno l'ombra, vediamo solo un camping coperto in ogni centimetro quadrato da tende e roulotte, con alcune case in legno ancora in fase di tinteggiatura. La reception è chiusa, aprirà di lì a cinque minuti stando a ciò che recita il cartello affisso sull’entrata. Ci sono un po’ di persone che stanno aspettando fuori, con l'aria seccata: saranno anche loro clienti dell'ostello che stanno cercando? Sarà veramente la reception dell'ostello quella? Non possiamo saperlo finchè non apre, ed il tempo utile per prendere il traghetto è sempre più agli sgoccioli. Non sappiamo assolutamente cosa fare e ci sta salendo una spiacevole ansia: è meglio rimanere lì in attesa ancora cinque minuti o forse più fino all’apertura della reception, o tornare immediatamente alla fermata del bus e riprendere la via della stazione, lasciando i bagagli nelle casseforti apposite per poi prendere subito il traghetto? Non abbiamo molto tempo per decidere in modo ponderato, per cui tentiamo la fortuna scegliendo la soluzione più immediata, ripartire subito. Il bus dal quale siamo scesi poco prima tarda solo qualche minuto ad arrivare, ma quei minuti potrebbero fare la differenza tra salire sul traghetto e vederselo passare davanti. Quando finalmente lo scorgiamo percorrere senza troppa fretta le curve in cima alla strada, dirigendosi verso di noi col motore che ansima e borbotta, saliamo e scopriamo con sorpresa che c'è a bordo la stessa signora di prima. Andiamo subito a spiegarle la situazione, e lei vedendoci in difficoltà si offre di portarci i bagagli nell'albergo della zona, dove lavora da trent'anni, cosicchè potessimo finalmente liberarci di quei fardelli e partire immediatamente. L’offerta è allettante, ci teniamo veramente a prendere la coincidenza giusta, avendo già calcolato che la successiva avrebbe causato enormi problemi di tempistiche probabilmente rovinandoci la giornata. Ci consultiamo per un attimo tra di noi, ma uno sguardo diffidente di Davide mi convince che per quanto l'anziana signora si mostri gentile e disponibile ad aiutarci e molto probabilmente non sia intenzionata a derubarci, non possiamo fidarci a lasciare in mano i nostri bagagli a quella che è pur sempre un'estranea. Che ne sappiamo poi della fine che avrebbero fatto? Al che rifiutiamo gentilmente ma con decisione, ignorandola quando profetizza che probabilmente perderemo il traghetto.

Una volta scesi dal bus inizia la corsa folle per raggiungere la stazione navale, fortunatamente poco distante da quella ferroviaria, dove sistemiamo i bagagli in fretta e furia cercando febbrilmente le monetine da inserire per poter chiudere a chiave. Ripartiamo a razzo verso la biglietteria davanti alla quale siamo appena passati correndo, già convinti di essere arrivati troppo tardi. Scopriamo invece che il nostro traghetto arriverà tra ben tre quarti d'ora e non a momenti come pensavamo fino ad un attimo fa. Quello delle nove in punto appartiene ad un'altra compagnia navale che non c'entra con noi. Accidenti alle informazioni sbagliate! Tanta fatica per niente, ma almeno possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, nonché fare una colazione decente nel tempo che ci separa dalla partenza. Decente significa qualche tossico biscotto all'amarena con del succo di frutta appena meno disgustoso di quello preso a Oslo, che finisce anche lui allegramente nel cestino dopo qualche stentato sorso. Inutile ogni tentativo di farselo piacere, è veramente ripugnante. Vorrei strozzare i nordici che riescono senza problemi a bere quel liquame di fogna, propinandocelo come "succo di frutta 100% naturale".

Tau

Consumata anche questa poco appetibile colazione, è tempo di prendere il traghetto per Tau che tanto abbiamo temuto di perdere irrimediabilmente: la traversata non ha niente di particolarmente interessante, a parte gli isolotti completamente disabitati e sperduti in mezzo al mare che sembrano apparsi dal nulla tanto sono apparentemente fuori posto. Il sole batte forte anche oggi, si prospetta una splendida giornata. Siamo felicissimi di essere riusciti a prendere il traghetto della mattina, l’energia è salita di nuovo a livelli stellari e siamo pronti ad affrontare le due ore e mezzo di salita necessarie per posare i piedi sulla rude roccia granitica che regna incontrastata sul Lysefjord.

Un’ora dopo il traghetto approda dove un autobus è fermo ad aspettare dei passeggeri, ma non è ancora il nostro. La folla di persone è abbastanza consistente, nessuno sale sull’altro autobus da cui capiamo che stanno tutti puntando alla Roccia, come noi ora. Un quarto d’ora dopo arriva il pullman giusto, con l’aria condizionata a mille causa la temperatura afosa: sistematici negli ultimi due posti disponibili, percorriamo venticinque minuti di strada montana popolata da casette bianche e da cespugli di fiori di ogni colore, con uno sfondo di montagne frastagliate ed aguzze nel quale cerchiamo di individuare la nostra Roccia, senza successo: non si può vedere da lì. L’autobus fatica a salire sui tornanti, appesantito dal pieno carico, ma se la cava egregiamente portandoci nell’area di ristoro allestita appositamente per i turisti che puntano alla scalata dei fiordi. Il parcheggio è enorme, data la mole di visitatori che raggiunge questo sito in massa ogni estate, con ogni mezzo. Usciti dall’autobus non perdiamo tempo e puntiamo subito verso il cartello che segna inequivocabilmente l’inizio del sentiero: Preikestolen, da quella parte.
 

La salita

Armati di scarpe da trekking e di spirito di avventura e conquista, iniziamo la salita su questo sentiero che inizialmente sembra ben tracciato e livellato. Presumiamo una salita ordinaria, in cui fare affidamento soltanto sul fiato e sulla buona volontà di arrivare presto in cima. Sulla destra possiamo scorgere gli ultimi lembi di oceano che sono penetrati fino a qui serpeggiando in mezzo alle montagne, è veramente paradossale vedere il mare confinare direttamente con esse, ma in Norvegia questo paesaggio è la norma, anche se per i nostri occhi è ancora troppo presto per farci l’abitudine. I miei scarponcini sono forse un po’ troppo nuovi e poco collaudati per risultare comodi e inoffensivi per i piedi, ma non posso certo stare a badare a queste sottigliezze: è probabilmente l’unico giorno in cui sono necessari e non voglio certo tornare a casa senza averli mai messi una volta.
I primi dieci minuti fila tutto liscio come l’olio, ma il nostro ottimismo è presto intaccato da una poco incoraggiante rivelazione: finito il primo tratto ci rendiamo conto che il sentiero è completamente diverso da quello che appariva. Consiste ora quasi interamente in massi e rocce irregolari che tappezzano completamente la strada, fastidiosissimi quando ci si cammina sopra. Tutte queste rocce sono ovviamente da scavalcare, poggiando il piede nel posto giusto, stando attenti a non sbilanciarsi e a non caricare il peso su una roccia instabile che si muove e ti fa rischiare di capitombolare all'indietro, e soprattutto a non causarsi qualche fatale distorsione alla caviglia che sarebbe un problema veramente difficile da gestire, specie se occorsa più avanti nel percorso. I piedi iniziano subito a soffrire per quel sentiero così aspro ed irregolare, il fiato non ci manca ma la natura della strada rende tutto doppiamente arduo. Come se non bastasse, il percorso è popolato da centinaia di persone che intralciano il percorso a noi tanto quanto noi lo intralciamo a loro: sono tantissimi quelli che come noi stanno tentando la scalata alla mitica roccia. La maggior parte di questi sono, manco a farlo apposta, italiani, da cui sentiamo ancora ovunque le voci che parlano la nostra lingua, questa volta dandoci molto meno fastidio: la concentrazione è tutta dedicata al mettere un piede davanti all’altro.

Alterniamo momenti di accelerazioni furiose a testa bassa, stufi di non vedere mai un punto di arrivo, con altri di camminata enormemente rallentata per un colpo di fatica. Ogni crinale roccioso sembra essere l'ultimo ma poi si scopre che ce n'è ancora un altro identico da raggiungere prima di arrivare in cima. La strada inoltre non è una salita uniforme ma è un continuo e imprevedibile saliscendi che mette a dura prova i piedi dentro le scarpe già scomode, costretti prima a volgersi in un senso e poi nell'altro, senza potersi abituare ad un andatura regolare. Solo raramente godiamo di un po’ di sollievo quando nelle (rare) parti pianeggianti ci sono dei ponticelli in legno fissati sul terreno misto tra l'erboso e il paludoso, ma è un sollievo di breve durata, in men che non si dica siamo di nuovo in mezzo ai sassi. Quando finalmente il tremendo sentiero pietroso finisce, passo dopo passo e un'imprecazione dietro l'altra, lo scenario varia: ora non c'è più nemmeno un sentiero vero e proprio, ci sono solo rocce larghissime e discretamente piatte dalle quali bisogna continuamente scendere e salire, con alcuni punti in cui vanno letteralmente scalate dal basso prendendo lo sprint per non fermarsi a metà. Spesso sbagliamo strada finendo in vicoli ciechi che terminano in un laghetto, e dobbiamo ritornare indietro di qualche metro, relativamente breve ma reso insopportabile dalla fatica che tende a farci risparmiare anche il più piccolo sforzo inutile. Le rocce sono tutte (e dico tutte) inclinate da un lato, cosicchè il piede non si trova mai dritto ma si flette costantemente ora a destra ora a sinistra, col rischio di distorsioni altissimo e come minimo un dolore assurdo alle caviglie, irritate dal bordo della scarpa. Nessuno attorno ha un'idea precisa di dove sia il sentiero giusto, vediamo la massa di persone aprirsi a ventaglio ognuno cercando la via più facile in un posto diverso, solo pochi riescono a trovare una via agevole, e non siamo tra questi. L'intera scena montana è condita da limpidi laghetti dallo scuro fondale, veramente suggestivi. In essi, alcuni temerari stanno facendo dei rigeneranti pediluvi alla temperatura di forse quattro o cinque gradi centigradi, non li imito nonostante la tentazione si faccia sentire. Si vedono specchi d’acqua in lontananza anche sulle montagne vicine, per metà rocciose e per l’altra boscose. Questi laghetti sono circondati dai pini che paiono minacciarli, tutti in cerchio armati di spine e frasche. L’insolito paesaggio contribuisce a lenire un po’ la fatica dell'ascesa, esacerbata dalla scarsità di acqua che ci costringe ad un razionamento severo. Passiamo continuamente da vaste zone completamente in ombra, dove senza maglione si muore di freddo, a zone esposte al sole cocente tenuto a bada molto poco dal cielo che solo in alcuni piccole porzioni è a pecorelle, mentre per il resto è completamente sgombro. Togliamo e rimettiamo ogni tanto il maglione pesante, finchè ci stanchiamo e decidiamo di sbarazzarcene una volta per tutte, in barba al freddo e al vento che contrastiamo col riscaldamento prodotto dai nostri muscoli in piena attività. La faccenda inizia a farsi stressante, ci stiamo preoccupando seriamente sulla distanza che ci rimane da percorrere: ogni volta che troviamo un cartello indicativo scopriamo di essere ben più indietro di quanto pensassimo, traditi dalla morfologia del percorso che fa sembrare molto più lunghi i tratti percorsi quando in realtà si sono fatte poche decine di metri. Tutt'a un tratto passiamo sul fianco della montagna dove ci sono tanti ponticelli di legno collegati tra di loro intervallati a rocce sporgenti, e da lì si inizia ad intravedere in lontananza la fine della montagna, il che ci dà nuova forza per continuare. Non possiamo mollare ora che siamo così vicini.

I primi strapiombi

Dopo altri trenta minuti buoni di scarpinata, coi piedi sempre più doloranti e macerati nel sudore, raggiungiamo tutto d’un tratto il primo punto in cui la montagna dà a picco sul mare: è impossibile esprimere cosa si prova a trovarsi in un luogo del genere. Lo strettissimo sentiero fiancheggiato dalla roccia da una parte e la vista a strapiombo col mare dall'altra, con ai bordi della stradina soltanto della scivolosa e traditrice erba a fungere da ciglio, fanno una certa impressione, anche se la paura di ruzzolare di sotto non mi sfiora nemmeno per un istante, così come non accuso vertigini che un tempo mi prendevano al trovarmi in un luogo particolarmente alto. La bellezza del panorama attorno e l'emozione di essere lì, finalmente, sovrastano qualsiasi paura e sensazione fisica sgradevole. La stanchezza e i dolori ai piedi non si sentono più, sono come temporaneamente svaniti. Rallentiamo il passo per goderci meglio questi spettacolari paesaggi e per assaporare fino in fondo il brivido dell’emozione. Distogliendo lo sguardo dall’acqua in basso, vediamo a perdita d’occhio le catene montuose estendersi, magnificate da un cielo terso e illuminato dal sole ora non più nemico dispensatore di raggi malefici. Man mano che ci avviciniamo alla meta vera e propria, lontana solo poche decine di metri da noi, gli strapiombi si fanno sempre più netti e paurosi. La densità di popolazione è sempre più alta, ed ormai la stanchezza non ha più alcun senso: le gambe ritrovano una rinnovata forza e spingono con forza senza più sentire alcuna fatica, finchè il sentiero finalmente si appiattisce e ci rendiamo conto di essere arrivati sullo spiazzo finale. La Roccia è conquistata.

Sulla Roccia

Mi fermo per qualche secondo a digerire la strana e quasi irreale situazione in cui mi trovo: sono su un blocco di granito quasi perfettamente liscio e verticale che si getta a precipizio in quello che sembra un grosso fiume ma in realtà è l’Oceano Atlantico. Esso serpeggia tra le due catene montuose che si fronteggiano fieramente, dividendole in due riempiendo le vallate che una volta erano asciutte. Le pareti laterali di questa roccia sono completamente sgombre da vegetazione, nessun free climber per quanto esperto ci potrebbe salire. Qualche traghetto solitario carico di turisti solca lentamente le acque, lasciando un'appena visibile scia di schiuma bianca dietro di sé. Sembra così piccolo a guardarlo da lassù, e anche il resto del mondo sembra così infimo ed insignificante da quella posizione privilegiata. Lassù niente altro aveva importanza. Nel cielo ora ci sono pochissime nubi, il paesaggio è qualcosa di irripetibile. Davanti a me un limite nettissimo, una linea retta divide la fine della montagna dall’inizio dell’acqua ben seicento metri più in basso, limite al quale mi avvicino prudentemente sdraiato bocconi onde evitare una fatale sincope da vertigine. L’emozione raggiunge il climax: la mancanza assoluta di protezioni e la visuale diretta sul fiordo da quell’altura lascia sensazioni indescrivibili. È davvero incredibile pensare a come la natura abbia potuto produrre un luogo di una bellezza così straordinaria, sapendo che è tutto unicamente effetto dell'erosione dell'acqua sciolta nei ghiacciai, che poi è andata a riempire le vallate sottostanti, millennio dopo millennio, pazientemente e senza mai stancarsi, con la forza della perseveranza che solo la natura possiede e che gli uomini invidiano.
Le persone che sono attorno a noi non fanno che vociare concitatamente, in tutte le lingue possibili e immaginabili, ma non me ne curo. Mi siedo sul bordo laterale della Roccia, ammirando un contrafforte che mi sovrasta sulla destra, e lasciandomi cullare dai riflessi del sole sull’acqua che si muove tutte quelle centinaia di metri sotto di me. In certi punti il sole forma delle strane figure sull’acqua, sembrano veri e propri disegni impressi sulla superficie. Guardando giù mi sento come invulnerabile: io sono lassù e il resto del mondo è lì in basso. Una sensazione fantastica. Ci rilassiamo finalmente tutti e due, in silenziosa estasi contemplativa.

La discesa

La fatica muscolare richiede però di essere smaltita, e lo stomaco di essere riempito nuovamente: in mezzo alla piana rocciosa facciamo uno spuntino decisamente spartano, più qualche barretta energetica per aiutarci nella discesa, che immaginiamo non più semplice della salita. Rifare al contrario tutti quegli improbabili sentieri, con la stanchezza accumulata e non del tutto smaltita dal breve riposo, non si prospetta un gioco da ragazzi. L'unico aiuto è dato da qualche barretta energetica ed un panino ingurgitati prima di scendere, dobbiamo farceli bastare perché non abbiamo altro. Vediamo diverse persone che si tolgono le calze per mettere i cerotti antivescica sulle piante dei piedi, esattamente come ho fatto io prima di partire: per chi ha i piedi che tendono a ferirsi e vescicarsi facilmente, quel sentiero non perdona. Oltretutto l’acqua è agli sgoccioli, dobbiamo usarla con parsimonia per evitare di trovarci a metà sentiero con la gola arsa e solo poche inservibili gocce sul fondo della bottiglietta di plastica.
Cominciamo a scendere lentamente, tastando prudentemente ogni roccia per evitare di sentire l'ingravescente dolore ai lati del piede, causato dai continui spostamenti laterali della caviglia quando camminiamo su rocce inclinate. Mano a mano che scendiamo, ci sentiamo decisamente più fortunati rispetto a chi incontriamo mentre sta ancora salendo, e per nessuna ragione al mondo vorremmo essere al loro posto, anche se ciò significherebbe vedere quello splendido spettacolo ancora una volta. Ora che non c’è più febbre di conquista ad infiammarci, avendo raggiunto il nostro obiettivo, sopportare la fatica e i dolori è meno facile. Ripercorriamo lo stesso sentiero al contrario, fermandoci spesso per bere e constatando che probabilmente l’acqua non basterà fino alla fine. In un tratto boscoso dove la sete è di nuovo incoercibile ci consultiamo per un attimo su cosa sia meglio fare: vuotare subito quel che rimane della bottiglia, facendosi durare il più possibile gli ultimi sorsi, o tenere il fondo per emergenza? Scegliamo il tutto e subito, vuotando la bottiglietta in pochi sorsi. Da quel momento non parliamo più per risparmiare le energie e non far inaridire la gola, respiriamo solo col naso e soffriamo in silenzio sulle rocce aguzze che ci fanno prendere continuamente delle lievi ma fastidiosissime distorsioni alle caviglie. Il silenzio viene rotto solo da qualche rara imprecazione quando troviamo il masso scivoloso e traditore che ci fa cadere col sedere per terra o quasi. A scendere impieghiamo quasi lo stesso tempo che abbiamo speso per salire, la consapevolezza che ogni passo ci porta più vicino alla salvezza ci aiuta un po’, ma ad un certo punto darei veramente tutto quello che ho pur di essere già in fondo al percorso. Ma come ogni brutto momento che non è mai eterno perché presagisce sempre ad una schiarita, passa anche questo calvario: lentamente ma costantemente, passo dopo passo e una fitta dolorosa dopo l'altra, tastiamo di nuovo con i piedi il suolo asfaltato, che ci sembra una manna dal cielo. La non poca sete residua viene curata immediatamente con un gelato, forse il più buono e rigenerante della mia vita date le circostanze. Completamente senza forze e coi piedi distrutti, saliamo sull'autobus che arriva a prenderci dopo una mezzoretta, ci sediamo e vorremmo rimanere lì in eterno, esausti. Ma in fondo siamo indescrivibilmente felici per ciò che siamo appena riusciti a compiere, trovando anche la giornata perfetta per ammirare appieno uno spettacolo che la natura regala solo di rado.

Stanchezza

Ripartendo in traghetto da Tau disponiamo finalmente di un posto abbastanza largo in cui sederci per riposare decentemente, rispetto all’autobus in cui c’è a malapena lo spazio per stendere a metà le gambe. Badando a non sprecare nemmeno la più piccola delle energie residue, sistemiamo come possibile zaini e scarpe. Togliendole scopro un piede distrutto che nelle parti più massacrate mi duole solo al tocco. Davide cede al sonno e si addormenta ancora seduto, mentre io resisto ma sono così rallentato e privo di forze che potrei cascare a terra da un momento all'altro, scivolando giù dal sedile. La forza di volontà, così necessaria nella difficile ascesa e non meno nella discesa, è ora svanita completamente. Rimango in quello stato di simil - dormiveglia apatico fino alla fine dell’ora di traversata, recuperando appena quel briciolo di energie che mi serviranno per raggiungere il posto dove potremo finalmente recuperare tutte le forze perdute con una sana e lunghissima dormita, cosa di cui sento assolutamente il bisogno non avendo praticamente dormito la notte precedente.

Con il solito autobus arriviamo in zona campeggio, dove una ragazza sta pitturando la facciata di quello che pare un bungalow, con molta solerzia e pazienza. Ci rinfranchiamo pensando che deve per forza essere una dipendente del campeggio e quindi qualche punto informazioni aperto ci sarà di sicuro. Secondo le indicazioni che abbiamo, il nostro ostello sta proprio lì: fatti pochi passi in più scopriamo che si trova letteralmente a quattro falcate dalla sede del camping visitato questa mattina, anche se è più simile ad una lavanderia pubblica o ad una stalla, piuttosto che ad un ostello. Vaghiamo per dei corridoi assolutamente tutti uguali e privi di qualsiasi riferimento, con pareti di un arancione brillante fastidiosissimo per gli occhi, ma non troviamo la nostra stanza. Torniamo indietro a farci rispiegare l’ubicazione della camera: odiamo dover ritornare sui nostri passi lungo la strada che abbiamo appena percorso, ma non c’è scelta. La pazientissima receptionist dai capelli rossi e dai modi affabili ci rispiega tutto da capo senza irritarsi. Dopo la nuova spiegazione finalmente accogliamo con enorme gioia e sorpresa la nostra camera doppia, come si accoglie l'acqua nel deserto. Possiamo riposarci tutto il tempo che vogliamo senza badare alle vicende di nessun compagno di stanza. Il supermercato vicino viene letteralmente svuotato dal cibo non appena recuperiamo le forze per raggiungerlo: i nostri stomaci e soprattutto i muscoli reclamano cibo a volontà per riparare tutti i microtraumi prodotti dalla salita e soprattutto dalla discesa, per non parlare dei piedi profondamente segnati di rosso nelle zone corrispondenti agli attriti con la parte dura delle scarpe. Ripensando a cosa abbiamo appena passato, sul duro sentiero per il fiordo, ci sentiamo veramente dei pascià in riposo serale, e finalmente dopo quaranta ore ininterrotte di veglia posso dormire come si deve, in conclusione di una giornata passata a sognare ad occhi aperti.

La strada atlantica

Non c’è come dormire in un letto vero per cancellare completamente la stanchezza accumulata da giorni. L’autobus che ci porterà a Bergen, la nostra prossima destinazione, parte alle nove e tre quarti, lasciandoci abbastanza tempo per verificare le nostre condizioni fisiche e fare una colazione decente. Le mie caviglie sono ancora molto doloranti: un movimento sbagliato o un colpo anche leggero nei punti offesi è sufficiente a farmi vedere le stelle, potrei inventare una nuova costellazione se qualcuno mi desse un calcio lì. Fortunatamente le scarpe di tela flessibile mi risparmiano il dolore e presto sto camminando nuovamente bene, alla volta della stazione dei bus di Stavanger. Dopo una breve attesa su una delle tante pensiline in serie poste sotto un alto tetto di cemento, il bus parcheggia dinanzi a noi ed il controllore ci ricorda di sua spontanea volontà che se siamo studenti possiamo beneficiare di un consistente sconto sul caro biglietto. Questa si chiama onestà.

Dobbiamo passare cinque ore in viaggio, con diversi cambi in cui il bus viene caricato su dei traghetti: approfittiamo di questa traversata per riposarci ancora un po’ dopo la massacrante giornata alla Roccia, e non di meno per gustarci un altro giro panoramico indimenticabile. Siamo ora sulla spettacolare strada atlantica: ad ovest abbiamo direttamente l’immenso Oceano. Vi sono innumerevoli ponti stile Brooklyn, costoni rocciosi ovunque a delimitare le strade che serpeggiano a due passi dall'acqua, altrettanto ubiquitari cespugli di fiori viola intenso che sono una delizia per lo sguardo, mandrie di mucche e pecore che pascolano tranquille sapendo che nessuno le disturberà mai. Il tutto con la musica nelle orecchie che stuzzica la mente e rende quel susseguirsi di paesaggi veramente coinvolgente. Un fraseggio di chitarra impetuoso corrisponde ad una violenta discesa lanciati in velocità, un arpeggio più delicato a una curva stretta con l'oceano che lambisce la strada, basta lasciarsi trasportare. Anche dal traghetto il panorama è meritevole: il sole, che anche in questo caso ci regala tutta la potenza dei suoi raggi senza essere ostacolato dalle nuvole, ci abbronza il volto e rinvigorisce lo spirito, mentre passiamo da un'isoletta all'altra, in una strada complicata e tortuosa, sempre sospesa tra la terra e l'acqua.

Bergen

Nel primo pomeriggio raggiungiamo la città: dico subito che definirla splendida è riduttivo. Lasciata la stazione centrale, molto vicina alla fermata dell'autobus alla quale siamo scesi, passiamo di fronte ad un laghetto con le onnipresenti fontane situate proprio in mezzo all'acqua, a non poca distanza dalla costa. Spruzzano i loro getti altissimi incessantemente, muovendo l’acqua tranquilla con nubi di goccioline e onde che non le permettono mai di riposarsi. Delle sculture di triangoli impossibili, interamente in legno, decorano il viale che costeggia il lago. Tale viale ci porta al cuore della città, che versa direttamente sul porto: lì, sulla baia di Vagen, si trova il famoso quartiere di case tipiche denominato Bryggen. Principale attrazione di Bergen, è classificato dall'organo dell’Unesco come patrimonio dell'umanità: si tratta di un intero villaggio di ben 280 casette di legno, che nella parte frontale al porto sono tutte uguali. Le finestrelle a volta sono sviluppate in verticale più che in orizzontale, i colori sono vari. Queste casette sono attaccate l'una all'altra come delle villette a schiera, con i tetti la cui fine coincide con l’inizio di quelli successivi. Mi chiedo cosa succede quando nei mesi invernali ci nevica sopra: si accumula tutta la neve nelle conche formate? I canali di drenaggio dove sono? Non riusciamo a capirlo, ma di sicuro gli abitanti sanno il fatto loro e sono attrezzati per tutto.
Queste casette sono ormai in buona parte riadattate a negozi di souvenir, ristoranti e musei, sempre in grande attività data l’ingente mole di turisti che visita ogni anno Bergen, la prima città realmente norvegese che vediamo. Si nota dovunque il classico stile di costruzione nordico, a differenza di Oslo dove non ce n’è poi molto. Ci sono i soliti mercatini del pesce e non solo che ogni città degna di questo nome qui deve possedere, più tanti pittoreschi e strettissimi viottoli che sfociano al molo letteralmente invaso dalle barche di ogni genere. In massima parte sono pescherecci all'opera per mantenere il primato nazionale di decimo posto al mondo per merluzzo pescato, nonostante la popolazione complessiva non raggiunga i quattro milioni e mezzo di abitanti.

La città è fantastica, ma siamo molto stanchi e prima di tutto dobbiamo trovare un ostello per tranquillizzarci sulla nostra sistemazione e poterci organizzare al meglio. Uno dopo l’altro li troviamo tutti pieni, ma fortunatamente le ben informate ragazze dell'ufficio turistico ci parlano di un dormitorio non lontano da dove siamo ora e che non figura in nessuna guida o carta ostelli di cui disponiamo. È la nostra salvezza: una volta raggiunto, con gli zaini pesanti ancora addosso che cominciamo ad odiare profondamente, apprendiamo dalla sorridente ragazza bruna della reception che hanno giusto due posti da riservarci per la prossima notte, ma solo per quella. Ci sistemiamo subito in camera, si tratta di un dormitorio da otto posti, molto spartano e minimale. I letti a castello dalla sottilissima struttura sono verniciati di nero, hanno l'aspetto veramente povero. La prima persona con cui veniamo in contatto è un inquietante ragazzone di colore rastafariano, con le classiche treccine e lo sguardo veramente truce. Sta dormicchiando sul letto a castello proprio di fronte alla porta, la quale si apre sempre con un secco rumore che talvolta sveglia chi stia dormendo dentro, a meno che non abbia il sonno pesante. Dopo un primo e secco “What’s up?”, a cui rispondiamo senza ricevere a nostra volta una replica, ci chiede con una voce da oltretomba la nostra nazionalità, senza nemmeno girare la testa, e dopo la nostra timida confessione di essere italiani emette un laconico verso di intendimento e smette di parlare non curandosi più di noi. Si limiterà successivamente a squadrarci con sguardi obliqui, da noi il più possibile evitati. Il resto dei compagni d'ostello invece ci ignora totalmente fin da subito, ma senza che la cosa ci disturbi minimamente: meglio il silenzio piuttosto che la parlantina inarrestabile di qualche logorroico inguaribile. Le porte si aprono con delle mai del tutto sicure chiavi magnetiche che tendono a guastarsi e smagnetizzarsi con estrema facilità, e l'armadio dove dovremmo chiudere a chiave i nostri bagagli è difettoso, completamente scardinato nella parte inferiore. Lo chiudiamo solo dopo non pochi sforzi e imprecazioni, producendo molto rumore che potrebbe turbare i sonni del nostro inquietante vicino di letto con chissà quali conseguenze. Dopo aver riposato qualche minuto, partiamo con l’esplorazione della città.
Il centro è un fermento di attività, con le bancarelle che vendono ogni bene possibile e immaginabile, commestibile e non, macchine d’epoca parcheggiate in riva al mare, negozi italiani che offrono gelati alla panna cotta e al lampone a cui non sappiamo resistere, tavolini all'aperto degli innumerevoli bar che servono birra a quasi otto euro al boccale. Un prezzo decisamente proibitivo al quale non cediamo nonostante la tentazione di farci una sana birretta di fronte al porto al tramonto sia forte. Dalla piazza si nota anche la funivia panoramica che percorre la montagna sopra di noi. I viottoli della cittadina sono una goduria da esplorare: ce ne sono alcuni così stretti da sembrare di essere in un antico paesino di montagna, le case sono tutte di colori diversissimi tra di loro anche se il bianco predomina; alcune di esse hanno perfino l'asta per la bandiera incorporata nell'architettura, che sporge da sotto le finestre del secondo piano. Camminando per il primo di questi viottoli notiamo un inflessibile vigilessa che sta multando un'automobile parcheggiata appena fuori dal limite delle strisce, di fronte ad una chiesa costantemente chiusa ai visitatori. Viene da sorridere pensando a certi parcheggi selvaggi in terza fila che si vedono a casa nostra, totalmente impuniti. Una casa mostra evidenti segni di incendio, è tutta annerita nella parte centrale, che spicca immediatamente sulle travi bianche. Nonostante qui piova più di duecento giorni l’anno, gli edifici bruciano lo stesso.

Non ci sono costruzioni particolarmente alte nel quartiere residenziale, predomina l'architettura tipica: bassa, squadrata e spigolosa. Le panchine abbondano, ideale rifugio per ammirare la vita di questa cittadina, specie le centinaia di persone che entrano ed escono dai negozi di souvenir cercando qualcosa da portare a casa come ricordo indelebile della loro vacanza. Sono attratto dai ciondoli raffiguranti le rune vichinghe, simbolo di una grandiosa cultura che ancora si nota ovunque passeggiando per la città, ma costano decisamente troppo per potermele permettere. Così rinunciamo al proposito e torniamo verso l’ostello, intercettando un esercitazione di canto nella chiesetta vicino alla piazza principale, con il coro che intona serie di note via via sempre più articolate, ma che non inizia mai a cantare sul serio: lo spettacolo inizierà solo dopo diverse ore, da cui accantoniamo il proposito di assistervi ce ne andiamo a dormire.

I musei

Le mete del giorno, dopo esserci alzati di buon ora come sempre, sono il castello di re Hakon, l’edificio laico più grande dell’intera Norvegia, e successivamente il museo della pesca, vicino al quartiere industriale. La mattina piove e ci siamo alzati troppo presto per l'orario di apertura dei musei, fissato tra le dieci e le undici di mattina. Camminiamo lentamente verso la nostra prima meta, il dolore che ho ai piedi per la salita alla Roccia non è ancora svanito del tutto e basta un movimento falso per riportare a galla delle fitte dolorose non trascurabili. La pasta all'ossido di zinco si rivela utilissima per curare velocemente ed efficacemente tutte le abrasioni e piccole vescicole che si sono formate ad entrambi, permettendoci di camminare normalmente o quasi. Il nostro castello apre troppo tardi, per cui continuiamo a camminare verso il museo della pesca. La pioggia si fa più forte e forma una pozzanghera enorme ad un lato della strada, proprio quello del nostro marciapiede. Mentre stiamo camminando passa un autobus e centra in pieno la pozzanghera qualche decina di metri più avanti a noi: vediamo coi nostri occhi cosa rischiamo nell’eventualità di trovarsi di fianco alla pozzanghera quando passa un automobile. La pozza è lunga, un bel respiro e la superiamo di corsa in un momento di calma del traffico, arrivando oltre ancora asciutti. Cessato il rischio doccia, arriviamo nel quartiere industriale, dove sono ormeggiate alcune enormi navi da trasporto container in attesa di partire per chissà quale destinazione in giro per il mondo; probabilmente sono cariche di merluzzi da esportare che produrranno enormi guadagni. Il museo della pesca apre ancora più tardi del castello, da cui ritorniamo indietro, stavolta senza bisogno di corse per superare le pozzanghere traditrici. L'interno è realmente angosciante: prima di tutto visitiamo i sotterranei, le vecchie prigioni. Finestre minuscole e claustrofobiche, così come le stanze, grandi quel tanto che basta per vivere (?) ma non di più. Ci chiediamo stupefatti come fosse possibile che degli esseri umani venissero rinchiusi in quelle celle di isolamento così terribili, trattati come bestie indegne, e non troviamo risposta per quanto ci sforziamo. Le scale sono estremamente strette, da salire molto lentamente per evitare di incastrarsi, così come i soffitti e in particolare le porte che sono bassissimi e ci si può tranquillamente pestare la testa se non si presta attenzione. In compenso, la sala cerimoniale è enorme, con il suo pavimento in legno un po’ scricchiolante e polveroso e il tavolo ricoperto da un decoratissimo arazzo giallo. Una puntatina veloce alla cima della torre per avere una visuale più generale della città, logicamente splendida anche da lassù, per poi ridiscendere lungo quelle scale claustrofobiche fino a terra.

Ci viene offerto un caffè gratuitamente al vicino bar, grazie al nostro biglietto d'entrata. Approfittiamo volentieri di questo insperato e corroborante spuntino, quindi riprendiamo la strada per il museo della pesca che ormai è aperto. Abbiamo davanti agli occhi una carrellata di tutti gli arnesi da pesca usati dai norvegesi, riproduzioni fedeli dei pescherecci, gli enormi arpioni (veri!) usati per la caccia alle balene, lunghi diversi metri e terribilmente potenti. Quegli arnesi squarterebbero un essere umano in mille brandelli di carne sanguinante, con un colpo solo e senza alcuna fatica: non vorrei certo essere al posto delle sventurate balene. L'atmosfera mi ricorda molto Capitani Coraggiosi, un libro sempreverde letto anni e anni fa ma che mai come ora sento vicino, con tutti quei grossi merluzzi seccati, appiattiti e salati dal caratteristico odore penetrante e pungente, gli enormi ippoglossi piatti come sogliole riprodotti a grandezza naturale. Di tutti quegli attrezzi da pesca dalla strana forma non immaginiamo nemmeno la funzione, e anche le reti da pesca sono una rivelazione: scopriamo da alcune riproduzioni in scala che vengono messe sott'acqua a grande profondità, enormemente di più di quello che pensassimo, per catturare tutto il pesce possibile in una singola pescata. Come doveva essere difficile fare il pescatore qualche secolo fa, senza le moderne navi accessoriate con ogni comfort e dotate di tutti gli attrezzi da pesca intensiva ed automatizzata!

Dobbiamo ora trasferirci di ostello: lasciamo un dormitorio da otto persone per approdare in uno da dodici. Le porte si aprono anche stavolta a tessera magnetica e farebbero bestemmiare un santo da quanto funzionano male. Gli inservienti stanno disinfettando le stanze, passando lo straccio dappertutto insistentemente dopo averlo imbevuto e strizzato nel secchio della candeggina. Non c’è nessuno nelle camere e non ci sono nemmeno le lenzuola pulite posate sui materassi, sembra che siamo gli unici occupanti. Capiamo che dobbiamo levarci dalle scatole per non intralciare le operazioni di pulizia: dopo aver buttato gli zaini a terra, completamente incustoditi, ce ne andiamo a visitare un altro villaggio, rappresentante l’antica Bergen, ora tramutata in esposizione gratuita. Un po’ fuori dalla città, ancora una volta dobbiamo prendere l’autobus. Superando ciò che assomiglia vagamente ad un arco di trionfo romano, entriamo in questo piccolo agglomerato di casette a punta, che si sviluppa in pendenza. Ormai iniziamo a conoscere l'architettura delle case norvegesi, per cui non c’è più molto di nuovo da vedere, a parte alcuni sentieri davvero piacevoli da percorrere con le siepi che li costeggiano da ogni lato, inaugurati da staccionate bianche disposte a ventaglio. Il tutto è accompagnato da stormi di piccioni, gabbiani ed anatre che coesistono pacificamente a fianco del laghetto, camminando gli uni in mezzo agli altri senza mai battibeccare per accaparrarsi le briciole di pane lasciate dai visitatori. Troviamo un posto riparato per consumare il nostro fugace pranzo, proprio mentre comincia a piovere. Non rimaniamo a lungo nel villaggio: al ritorno optiamo per qualcosa da vedere al chiuso, evitando così la fastidiosa pioggerella che sta diventando sempre più fitta ed insistente.

L’acquario

La scelta cade sull'acquario, stavolta raggiungibile a piedi dal centro. Riprendiamo l'autobus dalla fermata in mezzo alla superstrada e torniamo nei dintorni del porto, dove assistiamo ad una scenetta davvero comica: un tale si è lanciato in acqua avvolto da capo a piedi in una rete da pesca imbottita all'inverosimile di pop corn, e ora sta lentamente nuotando a dorso verso la riva, gettando a manciate i pop corn che vengono prontamente raccolti dagli uccelli nella zona. Chiede anche a tutti i curiosi ammassati a riva, tra cui noi due, se ne volessimo qualcuno, con un'espressione gioviale e compiaciuta dalla sua eccentrica prestazione. Dopo averlo osservato per un po’ mentre cerca di togliersi la rete di dosso, passiamo oltre, senza badare troppo allo strano personaggio.

Nell'acquario troviamo ogni genere di animale pensabile, tranne i grossi mammiferi come le balene: nelle vasche all'aperto ci sono i pinguini, esserini alti tre barattoli che paiono avere perennemente freddo da come tengono le pinne raccolte attorno al corpo, i maschi impegnati nella cova delle uova, tutti che camminano lentamente con la loro goffa andatura caratteristica. Da dietro i vetri mi diverto per qualche secondo a far impazzire uno sventurato esemplare sventolandogli velocemente la macchina fotografica di fronte al becco e osservando la sua reazione mentre tenta di seguirne il movimento, poi proseguiamo nella vasca delle grasse foche, un po’ pigre ma molto simpatiche. All'interno invece, in un clima tropicale artificiale ed asfissiante, con palme e liane che calano da ogni dove, stanno i coccodrilli, i varani e tutti gli animali della zona amazzonica: i coccodrilli sono decisamente pigri, è difficile convincerli a fare qualcosa, tantomeno a farsi fotografare. Alcune piccolissime scimmiette dagli occhi curiosi e attenti sono chiuse in gabbia assieme ad un'iguana abilissima nel mimetizzarsi sui rami, mi fanno un po’ pena lì dentro così, chiuse in un metro cubo di spazio in un habitat artificiale che non potrà mai sostituire quello in cui sono nate per vivere, ma almeno lì sanno che non verranno mai mangiate da nessuno, magra consolazione. Nella zona delle vaschette c’è un’altra serie impressionante di pesci diversi, inclusi ragni e stelle marine, ognuno con relativo commento scritto e proiettato su un video. Alcuni hanno forme davvero curiose che attirano l’attenzione, altri si nascondono timorosi di essere visti.

Vita cittadina

Facendo tappa ad ogni panchina pubblica per far riposare le gambe, decisamente massacrate da tutto quel tempo passato in piedi con pochissime soste, torniamo in ostello. Lì conosciamo un po’ di gente nuova: due giapponesi inquietanti, uno dei quali si siede per terra proprio di fianco al mio letto a tagliarsi le unghie dei piedi spargendone i pezzi in giro, sotto il nostro sguardo un po’ divertito e un po’ infastidito. Poi un po’ di nordici biondissimi, e infine due ragazze bolognesi della nostra età, anche loro munite di biglietto interrail, ma che si limiteranno a sedici giorni dedicati interamente alla Norvegia. Parlando un po’ scopriamo che hanno intenzione di esplorarla da cima a fondo, incluse le tappe di Tromsø e Capo Nord che noi invece avremmo saltato per motivi di mancanza di tempo, oltre che per i consigli di altri nostri amici che ci sono stati e ne hanno parlato come zone tranquillamente trascurabili. Scambiamo un po’ di chiacchiere con loro sugli ostelli visitati, sui nostri programmi di viaggio e sulla città di Stoccolma, ultima meta del nostro interrail e che loro ci assicurano essere splendida. In particolare consigliano di non perdersi il famoso ostello nave!
Chiacchieriamo ancora un po’, dopodichè le salutiamo per andare a mangiare fuori, questa volta intenzionati fermamente a provare qualche piatto tipico, ci saremmo vergognati davvero troppo a non comprare mai nulla che avesse il sapore del posto. Passando per la solita viuzza che conduce al centro, giunge dal cielo l'ispirazione: un chioschetto poco lontano dal porto sta vendendo degli hot dog di ogni genere, tra cui anche quelli di carne di renna! Li agguantiamo immediatamente, sono squisiti, in barba al vegetarianesimo che non è decisamente la nostra passione.
Con lo stomaco pieno riprendiamo a girare in maniera molto disimpegnata per i negozi della zona, specie all'alimentari dove contiamo di rifornirci: una volta provveduto ai generi di prima necessità, la nostra attenzione si rivolge ai frigoriferi che stoccano la birra. Ce n'è di ogni tipo, da quella che si trova in ogni angolo di supermercato anche a casa nostra, fino a quelle tipicamente nordiche riconoscibili dalle effigi vichinghe che recano sull'alluminio. Il prezzo sembra buono: circa tre euro per una lattina da mezzo litro, ci fanno molta gola. Mentre stiamo valutando se sia il caso di prenderle o no, allungando la mano per aprire il frigorifero così da guardare meglio, Davide si accorge tutt'a un tratto che la maniglia è legata strettamente con un fazzoletto di cotone bianco, per cui è impossibile da aprire. Da cui passiamo al secondo, pensando che il primo sia guasto o chiuso temporaneamente per motivi logistici: ma in un attimo, guardando meglio, le nostre certezze crollano. Tutti i quattro frigoriferi sono infatti chiusi col lucchetto, inaccessibili! Ci siamo cascati proprio come due pere cotte. In Norvegia infatti il commercio dell’alcol è soggetto a severe limitazioni, essendo il suo abuso un problema di rilevante gravità sociale: si possono comprare alcolici solo dopo raggiunta la maggiore età ed esibendo un documento di identità, l’età da raggiungere è direttamente proporzionale alla gradazione. Ci sono pochi negozi, di monopolio di Stato, appositamente dedicati alla vendita di alcolici, ma anch'essi sono soggetti a limitazioni, e il limite di legge di alcolemia alla guida è tale che con nemmeno mezzo bicchiere di vino si è già quasi certamente fuorilegge. Essere beccati ubriachi al volante qui significa come minimo ventuno giorni di carcere senza condizionale, oltre ad una salatissima multa! La legge norvegese è molto severa e non concede scappatoie, a noi potrà sembrare esagerato, ma sono sicuro che così facendo di incidenti mortali per guida in stato di ebbrezza qui ce ne sono molto pochi. Oltretutto, gli alcolici comprati in bottiglia hanno una sovrattassa che verrà restituita solo riportando il vuoto al negozio.

Non abbiamo voglia di grane e di trafficare con documenti d’identità per berci una misera lattina di birra, da cui torniamo in centro in cerca di altre amenità. L’insistente vento inizia a spirare con parecchia forza, da cui per non soffrire troppo il freddo ci mettiamo addosso i kee-way, unica protezione supplementare di cui disponiamo. Quel che rimane della serata lo passiamo su una panchina ad osservare il bellissimo tramonto che tinge di rosso e giallino le numerosissime nuvole all'orizzonte, creando un quadretto del porto e delle casette di legno che pare fiabesco. Le persone lasciano le barche su cui hanno sicuramente preso ben poco sole oggi, le strade invece di svuotarsi si riempiono sempre di più di gente che adora la vita notturna, particolarmente attiva qui al Nord.
Noi però sappiamo di doverci alzare presto il giorno dopo, quindi non tiriamo troppo la corda e ritorniamo al nostro ovile. Lì ci irritiamo non poco perchè le nostre tessere magnetiche non funzionano più, o meglio funzionano una volta sì e dieci no. Dobbiamo litigare con la prima porta per riuscire ad aprirla, e possiamo entrare solo grazie ad altri occupanti che ci salvano con la loro tessera fortunatamente funzionante. Una volta dentro i problemi non sono però finiti: la porta della camera si blocca automaticamente qualche minuto dopo che è stata chiusa, costringendoci a rimanere sempre almeno in uno in stanza per poter aprire all'altro che è rimasto fuori. Per rendere più vivace la serata, uno dei giapponesi si addormenta con il portatile ancora acceso, e dalle cuffie che ha sulle orecchie si sente costantemente e chiaramente una fastidiosissima musica da film sempre uguale, tremolante e ossessiva fino allo spasmo, che durerà fino alla mattina quando ci risveglieremo. Commento rumorosamente questo fracassone, sicuro di non essere capito, tra le risate del mio compare che dorme sopra di me nei letti a castello, finchè non cedo al sonno e si dorme, finalmente. Giapponese fracassone permettendo.

Sulla Flamsbana

La terza giornata presso Bergen è interamente dedicata alla natura ed ai fantastici paesaggi della zona dei fiordi limitrofa, la più famosa della Norvegia. Indubbiamente le città sono bellissime da visitare, ma la natura è sempre tre passi avanti all'uomo nel creare opere d'arte, ed è il motivo principale per cui sono venuto qui al Nord: entrare in comunione con la natura il più possibile.
In uno dei tre binari che si insinuano dentro la struttura a tripla volta della piccola stazione, parte tra poco il treno diretto a Myrdal, la prima tappa dalla quale parte quello che è descritto come il più bel tratto panoramico dell’intera nazione, culminante nella successiva gita lungo il fiordo in traghetto. Si preannuncia una scorpacciata di natura e paesaggi veramente succulenta. Il treno arriva in orario, come è la regola per i treni nordici. Velocemente arriviamo alla piccola cittadina di Myrdal, da cui prenderemo la coincidenza per la storica linea denominata Flamsbana. Al momento di comprare i biglietti abbiamo scelto di percorrerla in discesa per vedere un panorama più ampio e goderci una pendenza vertiginosa. Il treno è già lì pronto ad aspettarci. Siamo tutti trepidanti in attesa di vedere questo famoso tratto, che si compie in poco meno di un'ora superando con soli 20 km di tratto ferroviario un dislivello di circa 880 metri. Si tratta della linea ferroviaria senza l’uso della cremagliera più ripida d’Europa, e un indiscusso capolavoro di ingegneria, con tutte le sue curve incastonate perfettamente nel coriaceo granito.

Il treno parte lentamente, ancora una volta dopo quasi settant’anni di onorato ed ininterrotto servizio. Comincia la discesa tenendo i freni sempre tirati, data la notevole ripidezza dei binari. Le cascate sono numerosissime: dalle alte montagne che ci sovrastano da ogni lato scendono in numerosi punti dei rivoli d’acqua a strapiombo, disposti quasi regolarmente sulle creste rocciose. Dividono in più parti le montagne come una riga tirata a pennarello, sembra un lavoro fatto da un geometra. La prospettiva in cui ci troviamo li fa sembrare ancora più alti e minacciosi, con quell'acqua che scende velocissima e che pare possa tagliare in due qualsiasi ostacolo le si presenti lungo il percorso, come l’acqua ad alta pressione usata in ingegneria, che riesce a spezzare in due perfino le lastre di marmo. I freni di questo vecchio treno rivestito internamente di legno stridono in modo acutissimo, lancinante, a volte quasi assordandoci. Si sente la locomotiva incespicare e contrastare a fatica l’imperiosa forza di gravità che tende a tirare giù tutti i vagoni verso il basso come un fulmine inarrestabile. In alcuni punti vi sono delle gallerie scavate nella montagna: si aprono delle finestre naturali in mezzo ad esse, tenute saldamente aperte da delle travi di legno incrociate a mo’ di grata. Passandoci in mezzo sembra di essere imprigionati dentro la roccia, ma è fortunatamente solo un’impressione: il treno, seppur lentamente e frenando a fatica, prosegue la sua discesa. Raggiungiamo dopo qualche minuto uno spiazzo panoramico in cui il treno si ferma del tutto e lascia scendere i passeggeri sulla legnosa piattaforma, per permettergli di ammirare la solenne cascata di Kjosfossen. Sgorga furibonda dalla cresta della montagna pochissime decine di metri più avanti, e passa proprio sotto il nostro ponticello. Questa è una vera cascata, molto più larga dei rivoli visti prima, un vero e proprio fiume in piena che scende impetuoso, cambiando più volte direzione quando incontra gli scogli indifferenti. È già uno spettacolo emozionante di per sè, ma lo diventa ancora di più quando, da degli altoparlanti nascosti dietro le rocce in posizione strategica a noi invisibile, sale una musica molto evocativa e celestiale, sulla quale ballano due ragazze biondissime che indossano vesti vichinghe. Le vediamo spostarsi leggiadramente da un masso all'altro appena davanti alla cascata, danzando leggere come l'aria sottile di montagna. Sono avvolte dalle nubi di spruzzi e dal fragoroso rumore dell'acqua che scivola sulle rocce frangendosi in migliaia di flutti, erodendole nel corso dei secoli con una forza enorme, spaventosa. Nessuno si aspettava un simile intrattenimento, e rimaniamo tutti a bocca aperta. Quando la musica finisce, le danzatrici spariscono nel nulla così come sono apparse, lasciandosi cadere a peso morto al di là del masso. Prima di poter dire qualcosa, il suono imperioso del fischietto del ferroviere rompe la magia e ci richiama a risalire sulle carrozze: il viaggio deve proseguire. Le gallerie nella roccia finiscono, ora siamo all'aperto e possiamo vedere molto meglio la vallata sotto di noi: ancora cascate, prontamente filmate da Davide con la sua inseparabile videocamera. Gli stretti fiumi d’acqua in caduta libera si raccolgono a valle scavando una conca che va poi a formare degli eleganti laghetti, oltre a provvedere a generare energia grazie alle centrali idroelettriche sottostanti, abilmente nascoste per non deturpare la panoramica della zona. Le fattorie e le casupole che si intravedono ogni tanto appese sui monti fanno veramente domandare come facciano a vivere delle persone in un luogo così isolato, e parliamo dell'estate, figurarsi in inverno. Questo in particolare è un aspetto che mi ha sempre suscitato estrema curiosità: queste persone vivono tutto l'anno in luoghi impervi, eppure sopravvivono lo stesso, magari vivendo anche meglio di noi, troppo spesso presi dalla frenetica vita urbana e costantemente sotto stress. Arrivati in fondo al meraviglioso percorso c'è la cittadina di Flam, un minuscolo borgo portuale e commerciale che conta circa cinquecento abitanti, e che è il punto di partenza per il nostro battello che solcherà tutti i quaranta chilometri del Sognefjord, il maggiore fiordo della Norvegia.

Sul Sognefjord

Il traghetto arriverà tra qualche ora, per cui ci facciamo un giro spassionato per le piane che danno sul mare, circondate sugli altri tre lati da montagne dal vago aspetto dolomitico. Non mancano le zone dove potersi sedere per ammirare il panorama, ma preferiamo camminare un po’ per sgranchirci le gambe dopo l'immobilità nel treno. Le montagne del versante opposto a quello del porto sono molto vicine a noi, si gettano quasi a perpendicolo in acqua come se fossero vette di tremila metri a cui sono stati tagliati di netto i primi duemila, cadute poi verso il basso tutte di un pezzo con la parte rimanente fino a impiantarsi sul livello del mare. In realtà la parte inferiore è sommersa dall’acqua oceanica che si è insinuata fino a questo punto dell’entroterra, ma riesce difficile immaginarlo, così come è difficile rimanere indifferenti di fronte ad una singolarità simile. Mentre aspettiamo, seduti in riva al golfo in una consueta pausa meditativa, due bambine norvegesi bionde come il sole e munite solo di costume leggero si tuffano in acqua, che deve essere gelida, senza provare il minimo brivido o collasso. Rimaniamo allibiti: se lo dovessimo fare noi probabilmente andremmo a fondo privi di sensi. Anche le persone che incrociamo sono spesso coperte solo da magliette a maniche corte, al massimo da giacchette leggere, mentre noi abbiamo freddo pur con addosso strati e strati di indumenti pesanti. Guardiamo questi individui quasi insensibili al freddo con crescente irritazione mano a mano che se ne presentano altri ai nostri occhi: com’è possibile che loro non soffrano minimamente vestiti così poco, mentre noi non possiamo tirare giù la cerniera della giacca senza congelare dopo pochi minuti? Forza dell'abitudine a vivere in paesi freddi e a passare qui lunghi mesi invernali dove il sole sorge con una luce flebile solo per pochi minuti, o addirittura non sorge affatto. Il cielo, fino a poco prima discretamente nuvoloso, inizia a scurirsi e a coprirsi di nuvole nerastre: non passerà molto tempo prima che si rimetta a piovere. Riusciamo a mangiare tranquilli su una panchina le nostre poco invitanti cibarie, e non appena finito iniziano a cadere i primi goccioloni. Manca solo una mezzoretta prima che arrivi il nostro traghetto a prelevarci. La traversata dura circa quattro ore, un vero peccato che il tempo sia così brutto: i fiordi visti dalla barca sono meno emozionanti di quello che abbiamo potuto ammirare giorni prima dal Preikestolen, un po’ oscurati dal tempo uggioso, ma la traversata si rivela comunque piacevole, anche se nell'ultima parte un po’ monotona: dopo qualche ora l'occhio si abitua al paesaggio e non reagisce più se non nei punti in cui veramente è impossibile non stupirsi. Inganniamo il tempo ascoltando musica, giocando a carte, facendoci domande sui nostri rispettivi argomenti di studio che sono infermieristica e ingegneria meccanica: un buon modo per divertirsi ad interrogarsi e imparare anche qualcosa di nuovo. Poco prima del ritorno a Bergen, il comandante supera se stesso con un annuncio decisamente divertente, in perfetto inglese: "Vi ringraziamo per essere stati a bordo con noi, tra poco saremo arrivati e potrete scendere, ma se le ragazze vogliono trattenersi di più, sono ben accette!". Tra le risate generali, la piccola nave si ferma lentamente all’ormai conosciuto porto di Bergen, e appena smontati puntiamo subito all’ostello. Non abbiamo voglia di far altro che dormire.

Bergen

Intorno alle sei e mezza vengo bruscamente svegliato dall'allarme dell'ostello, non riesco a concepire che un buco del genere disponga anche di un allarme. La fastidiosissima campanella trilla proprio fuori dalla nostra porta, ossessivamente: probabilmente è scattata per un contatto elettrico o qualche movimento di un grosso insetto che ha perso la via di casa. Nessuno si alza per controllare cosa sia successo, e non appena uno dei norvegesi vicino alla porta inizia ad uscire dalle lenzuola, la campanella improvvisamente tace. In un attimo ripiombiamo tutti nel sonno, eccetto Davide che non si è nemmeno svegliato, unico di tutta la camerata a non aver levato la testa. Quando non molto dopo ci svegliamo tutti e due, stavolta grazie alla ben più discreta e mite sveglia nel telefonino, lasciamo finalmente anche questo dormitorio mentre stanno ancora quasi tutti ronfando beatamente. Abbiamo così voglia di andarcene che non facciamo nemmeno colazione. In particolare lasciamo con grande piacere i giapponesi pazzi, le tessere magnetiche malfunzionanti e gli allarmi che partono ad ogni volo di mosca. Buttiamo in qualche modo le lenzuola sporche in fondo al sacco di recupero e andiamo via senza fare rumore, il più velocemente possibile.

In questa fredda mattinata finiamo di visitare la città, iniziando con la chiesa di San Giovanni, rossa e fiera che si staglia in fondo ad un viale in pendenza, dove sono parcheggiate delle macchine talmente inclinate da stupirsi che non rotolino giù per la forza di gravità. Altissima, di forma appuntita, con le guglie verdi e l'onnipresente arco a sesto acuto tipicamente gotico, il mio stile di costruzione preferito. Purtroppoè il suo giorno settimanale di chiusura, da cui non possiamo entrare nemmeno in questa. Dopo questa piccola interruzione nei nostri numerosi aiuti dalla dea bendata, un altro giretto nella zona più elevata della città, per fermarci poi di fronte ad uno stagno pieno di anatre e ninfee, divertendoci ad osservarle mentre galleggiano beate in acqua senza alcuna preoccupazione. Loro non devono pensare a dove avrebbero dormito il giorno dopo, né ai posti da prenotare in ostello, né alle coincidenze perse, tutte cose con cui noi abbiamo a che fare quasi quotidianamente da una settimana, abbastanza stressanti perchè non finiscono mai, ma allo stesso momento eccitanti e coinvolgenti, trasudanti spirito d'avventura e di rischio che ogni ventenne che si rispetti dovrebbe avere. Ormai ci manca poco a lasciare questa affascinante città, da cui ritorniamo alla stazione ad attendere ancora per qualche ora il treno che ci riporterà ad Oslo, per poi prendere la coincidenza per Trondheim, la nostra prossima tappa.

Ci sediamo sulle non troppo comode panchine di legno della stazione, in paziente attesa. Ognuno è immerso nei propri pensieri, guardando i pochi treni che la stazione può contenere mentre arrivano e ripartono, dopo che le inservienti li hanno lustrati da cima a fondo per non lasciare i passeggeri seguenti sguazzare nella (poca) sporcizia lasciata dai precedenti. Osserviamo la gente che si muove senza sosta da una piattaforma all'altra, tutti che posano una parte della loro vita sulle fredde pietre del pavimento della stazione, erodendo impercettibilmente quel suolo così vissuto. Anche noi ora siamo parte di tutto questo, orgogliosi di poter dare il nostro contributo a questo eterno viavai. Lo spirito di chi ama viaggiare si nutre di questi momenti: anche l'apparente noia delle ore passate ad aspettare il treno in silenzio ha il suo fascino. Lascia tutto il tempo per pensare, per riflettere, per fantasticare su quella che sarà la prossima meta, su come sarà il prossimo treno su cui salirai, su quante cose ti rimangono ancora da vedere e su come il tempo piano piano stia passando e stia divorando una tappa dietro l'altra, lasciandoti a bocca aperta per quanto passa velocemente. Sembra così lunga una vacanza quando si è all'inizio, magari anche scoraggiante per le risorse mentali e fisiche che ti richiederà, poi un giorno ti svegli ed è già finita, e questo è un mistero che temo non potremo comprendere mai pienamente. Ma la vacanza ora è tutto meno che finita, è ancora tutta da vivere, e questo è meraviglioso. Non posso fare a meno di ringraziare non so chi per avermi dato la possibilità di essere qui ora, con il corpo e la mente sani, cosa che troppo spesso diamo per scontata ma sulla quale purtroppo non abbiamo mai certezza.

Mentre ci immergiamo nei meandri della nostra mente, che nessun altro oltre a noi stessi potrà mai indagare e conoscere, ci pensa un'ape a risvegliarci e a riportarci nel mondo reale: infatti ha appena punto l'orecchio di Davide, senza che lui abbia fatto il benchè minimo movimento che potesse anche lontanamente innervosirla. Sappiamo che è un ape poichè il pungiglione, ancora infisso nella carne molle del padiglione auricolare, si è trascinato dietro anche le interiora del temerario insetto. Ha punto sapendo di morire poco dopo, scardinandosi l'addome a differenza della ben più cattiva vespa che punge più e più volte senza timore di uccidersi. La zona offesa diventa subito gonfia e dolorante, ci vorrebbe del ghiaccio, ma non abbiamo granchè sottomano. L’unica idea che mi viene è di usare la confezione metallica degli sgombri al pomodoro, l'unica cosa fresca che abbiamo a disposizione, da mettere sull'orecchio per alleviare dolore e gonfiore. Non è esattamente un metodo ortodosso, ma funziona!
Facciamo quattro passi per calmare le acque agitate dalla spiacevole puntura e per rinfrescare la parte dolorante con un po’ di vento, passando per delle vie ancora non battute in cui però non troviamo nulla di interessante. Poco prima che il treno si presenti al capolinea recuperiamo i bagagli dagli indistruttibili cassetti metallici e ci troviamo a lottare ancora una volta con la massiccia presenza di vespe assassine che sembra proprio ce l'abbiano con noi e solamente con noi. Riusciamo a scacciarle solo dopo numerose sventolate di berretti e di mani, finchè finalmente il treno arriva e ci porta via dalla stazione, liberandoci dal tormento di questi fastidiosi insetti, mai così aggressivi come in questi ultimi giorni.

Notte in treno

Ci aspettano sedici ore complessive da passare in carrozza, spezzate solo dal breve cambio che dovremo fare poco prima della mezzanotte. Dobbiamo ripercorrere lo stesso tratto di ieri fino a Myrdal, per poi ridiscendere verso la fermata di Hønefoss a poca distanza dalla capitale, nella quale cambieremo treno e risaliremo con il diretto per Trondheim. Purtroppo non esistono collegamenti ferroviari diretti tra Bergen e Trondheim, che ci farebbero guadagnare quasi una giornata, mentre gli altri mezzi di trasporto come il traghetto hanno un costo proibitivo per le nostre finanze, oltre ad essere notevolmente più lenti. Lungo la strada vediamo ancora tante impetuose cascate, un violento temporale che si conclude poco dopo con uno stupendo arcobaleno che taglia in due le montagne rocciose ed irregolari, altro regalo di una natura veramente generosa nei nostri confronti. Forse è segretamente sensibile al nostro ardente desiderio di vedere le meraviglie che riesce a creare gratuitamente, ed è disposta a regalarci un po’ della sua ricchezza. La vista dell’arcobaleno fa dimenticare per un attimo tutti i timori, il dolore per la puntura e la noia del lungo viaggio.
Siamo un po’ preoccupati per la coincidenza che dovremo prendere ad Oslo, dato che il treno ha più di mezz’ora di ritardo, probabilmente dovuta ad un guasto: ma ancora una volta non dobbiamo preoccuparci. Sfrecciando velocemente e senza fermarsi, questa scatola di latta semovente recupera totalmente i minuti perduti, e l'apprensione svanisce presto quando abbiamo in mano i biglietti per Trondheim mentre la coincidenza arriverà a minuti. Controllando meglio i biglietti che abbiamo in mano però ci accorgiamo che segnano un orario diverso! Tra le scuse del commesso ci vengono cambiati, e per fortuna che ce ne siamo accorti in tempo. Il treno è ormai prossimo alla stazione, da cui ci portiamo velocemente sul binario. Dalla fretta di salire sbagliamo la carrozza, entrando in quella dei vagoni cuccetta: ci troviamo a dover scavalcare precipitosamente tutti i numerosi passeggeri muniti di borsoni grandi quanto i nostri che stanno salendo dietro di noi, per poter raggiungere la carrozza giusta, non essendoci in quel vagone alcun collegamento diretto con le carrozze normali. Liberi dalla folla dopo non pochi sforzi e contorsioni negli stretti passaggi dei vagoni, riprendiamo la via per il nostro vagone che è proprio in fondo al treno, trovando ancora i gentili regali per aiutarci a dormire meglio. Mi sono preparato al peggio dopo la precedente esperienza di notte dormita (?) in treno, infatti stavolta non voglio nemmeno tentare di addormentarmi, vada come vada: se dormo va bene, altrimenti preferisco rimanere sveglio, tollererei di più una notte completamente in bianco piuttosto di una dormita pochissimo e malissimo. Effettivamente, non va molto meglio: dormo complessivamente solo un'ora (ma è già un deciso miglioramento, se confrontata col nulla), dalle sei alle sette di mattina. Ma stare sveglio mi offre ancora una volta una cospicua ricompensa: intorno alle cinque e mezza, mentre il mio compagno è tranquillamente appisolato, assisto ad una spettacolare alba, con le sue luci e i suoi colori che mi lasciano ancora una volta a bocca aperta mentre il treno prosegue spedito tra i monti, indifferente a quella meraviglia.

Trondheim

Poco prima dell'arrivo alla stazione di Trondheim ci svegliamo tutti e due, uno dal sonno vero e proprio e l’altro dal dormiveglia, ancora rimbecilliti e con ben poca voglia di passare un'altra giornata a girare per una città, ma dobbiamo farcela lo stesso. A Trondheim dedichiamo solo una giornata, prima di ripartire alla volta di Bodø. Arriviamo verso le sette e mezza, con la luce del sole ormai piuttosto forte, stanchi morti e con la mente un po’ rallentata nonostante abbiamo dormito un po’ di più della volta precedente. Il clima è molto più rigido ora, è assolutamente necessario mettersi su anche il secondo maglione e la giacca. Il cambiamento di temperatura così repentino ci stupisce, ma siamo pur sempre un bel pezzo più a nord di prima, ed è mattina presto. Non abbiamo molta fretta di gettarci nell’esplorazione della città, da cui tento di dormire ancora un po’ non appena individuo una (rara) panchina completamente sgombra nella stazione. Il mio tentativo però non va a buon fine: la panca è troppo rigida e i miei cicli circadiani sono troppo scombussolati per riuscire a prendere sonno, e anche se ci riuscissi probabilmente dormirei solo pochi minuti svegliandomi ancora più imbesuito. Così desisto e mi accorgo della mia vescica decisamente tesa, che mi sta mandando chiari segnali per dirmi che ha una gran voglia di svuotarsi: la sorpresa è che i bagni della stazione sono a pagamento, o si pagano cinque corone o la si tiene. Fortunatamente riesco ad approfittare delle circostanze e ad entrare gratis quando l'uomo delle pulizie apre la porta dall'interno, proprio mentre sto ispezionando la serratura della porta cercando un modo di eludere il sistema di blocco automatico. Vede la mia espressione un po’ spaesata, con i capelli ancora completamente arruffati e gli occhi iniettati di sangue, e subito mi dice con fare rassicurante e quasi paterno che quello è il bagno, sì proprio quello, posso entrare...di sicuro non posso rifiutare l’offerta! Sono d'accordo sul fatto che pagando più tasse i nordici si assicurano migliori servizi, in fede alla loro filosofia “dalla culla alla tomba”, ma sborsare denaro perfino per andare a fare pipì mi sembra veramente eccessivo, è quasi crudele. Eppure, la maggior parte delle toilette delle stazioni e dei centri commerciali nordici è a pagamento. In alcuni si paga direttamente all'entrata, in altri solo se si deve usare la tazza, mentre gli orinatoi sono gratis: è tragicomico vedere tutte le file di bagni con la porta chiusa da un robustissimo lucchetto, magari quando non hai le monete giuste in tasca e stai per fartela addosso. Chiusa la parentesi bagni pubblici, facciamo una veloce colazione con quello che c'era rimasto di succhi di frutta, stavolta decenti, e contornando con biscotti previdentemente scelti tra quelli meno zuccherati, quel tanto che basta per darci la forza di uscire dalla stazione e cominciare a camminare senza subire attacchi intestinali, il resto verrà da sé appena preso il ritmo giusto.

La prima tappa è la stupenda cattedrale di Trondheim, di nome Nidarosdomen: è la più grande della nazione e considerata spesso come la più bella di tutta la Norvegia. Effettivamente, è splendida: di stile romanico-gotico, enorme e maestosa all'esterno con quelle decine di statue in fila che ti osservano dall'alto e le svettanti guglie. All’interno è ancor più magnificente, con il suo rosone di vetro sapientemente colorato che è una delizia per gli occhi, tutto in spazi enormi che avranno richiesto un lavoro titanico coronato da decenni di sudore e devota tenacia per essere completato. All’interno c’è quello che sembra un set per girare un film, apprendiamo presto che si sta preparando una grande recita tradizionale in nome di una ricorrenza storica della città che cade proprio quel giorno. Due attori vestiti in abiti tradizionali stanno incrociando le loro spade di legno con disinvoltura, provando e riprovando finchè le loro mosse non saranno perfette. Dopo averli osservati per un po’, usciamo dalla grande cattedrale per una giusta pausa di riposo atta a rifocillarci, assediati come non mai dalla fame e soprattutto dalle vespe che non ne vogliono sapere di lasciarci in pace ovunque andiamo, indifferenti ai nostri colpi di mano armata di berretto. Un breve spuntino, dopodichè un giretto in centro, anche qui come a Bergen pieno di vita: c’è una fiera medioevale completa di bancarelle (strano!), suonatori ambulanti di viola, perfino un giovane fabbro che sta dando una dimostrazione di come si forgia una spada. La batte infinite volte col martello per rimuovere più impurità possibili, per poi metterla a raffreddare in acqua producendo la classica fumata bianca che si sprigiona dalla punta arroventata e luminosa. Quando la punta tocca con troppa violenza una superficie esplode in centinaia di piccole scintille che vanno a spegnersi spontaneamente nell’aria senza più lasciare traccia. Piena tradizione norvegese che si assimila attraverso i sensi, col clangore ossessionante del martello sul coriaceo metallo che stanca il martello e la staffa dell’orecchio, l'odore del pesce fresco che stuzzica insistentemente i recettori olfattivi presto saturati, la vista di tutte quelle cose nuove che stiamo imparando su questo straordinario e fiero popolo. Dopo la mostra visitiamo la fortezza della città, che dalla sua posizione sopraelevata domina tutto il paesaggio sottostante. Uno stretto sentiero in mezzo a dei verdi boschetti ci porta in uno spiazzo erboso molto ampio, che circonda il vecchio castello: entro le spesse mura troviamo ancora cannoni ornamentali ma che una volta sparavano davvero, ammassi di roccia, strapiombi senza protezioni e qualche panchina su cui sedersi ad ammirare l’intera città dall’alto, con l’oceano e le onnipresenti montagne sullo sfondo. Tornando indietro, in fondo ad una discesa notiamo un congegno a dir poco insolito: è una specie di binario metallico che percorre tutto il dislivello, sembra un montascale. Scopriamo subito dal cartello indicativo di cosa si tratta: è un montacarichi per le biciclette! Si incastrano nei supporti e il macchinario le porta fino in cima alla salita, per non doversela fare in sella a morire di fatica, o spingendo la bicicletta a piedi. Geniale! Lassù pensano proprio a tutto. Successivamente tocca al quartiere pescatori, molto simile al Bryggen, con due file di case bianche, rosse, azzurre, gialle e verdi che si estendono a perdita d’occhio. Ce n’è anche qualcuna più rustica senza vernice, tutte si ergono su palafitte immerse nell'acqua che separa i due filari, visibili in tutta la loro bellezza dal rosso ponte che unisce i due lati.

Apatia

La stanchezza della pesante nottata comincia a farsi sentire prepotentemente, stiamo iniziando a trascinarci piuttosto che a camminare, e ciò sfocia in un brutto momento di noia ed apatia, quando le forze vengono meno e si vorrebbe solamente essere a casa propria a dormire, senza dover prendere altri treni o dover camminare ancora per chissà quanti chilometri in giro per le città affollate. Forse anche il pensiero dell'ennesima notte in treno che ci aspetta proprio quella sera per raggiungere Bodø rende così pesante la fatica, amplificandola. Tutta questione di psicologia, probabilmente: l'ultimo giorno di lavoro della settimana si sopporta meglio del primo, sapendo che gli seguirà il fine settimana. Per riprendersi è sufficiente scavare un po’ più a fondo dentro di sè per ritrovare la motivazione e le risorse necessarie ad andare avanti: poco alla volta, dopo una sosta in stazione per riprendere fiato e colore, in cui cerco nuovamente di dormire su quelle rigidissime panche di metallo ma senza successo, ci riprendiamo in parte da quella condizione di passività che rischiava di prenderci totalmente. Aspettiamo il treno per Bodø, tappa che mio padre fece nel lontano 1971 per vedere il surreale eppur reale spettacolo del sole di mezzanotte, quando fece tutto il giro della Norvegia come noi, ridiscendendo poi dalla Svezia fino a completare il percorso in Danimarca. Non potremo vedere il sole vero e proprio, con nostro grande rammarico: la stagione è già troppo inoltrata. Non ci muoviamo più dalla panca della stazione, preferiamo risparmiare il più possibile le energie residue per la giornata di domani, che sarà altrettanto impegnativa. Il tempo lo passiamo come possiamo, un po’ nella noia e un po’ tentando qualche argomento di conversazione per tenerci svegli: osserviamo il modellino di plastica rappresentante la linea tranviaria locale, un tempo funzionante ed attivato da un bottone, ora solamente ornamentale. Il mio compare si diverte a interrogarmi sulle tecniche di lavorazione che ha subito il portalampada della stazione prima di essere installato sopra la nostra panchina: sarà stato tornito, fresato o chissà cos’altro? E la maschiatura dei bulloni cos’è?
Mentre rispondo alle domande, un po’ arrampicandomi sugli specchi un po’ ragionando, passa un anziano signore dall’aspetto decisamente trasandato e decrepito, vestito da custode della stazione ma non certamente in grado di svolgere questo lavoro: infatti è incassato in una motoretta per handicappati che lo avvolge tutto. Tale mezzo si muove molto lentamente sulle quattro piccole ruote, continua ad andare avanti ed indietro senza sosta, non si capisce proprio dove voglia andare. Alla fine il tizio decide di andarsene, uscendo dalle porte ad apertura automatica, e tardando troppo a uscire dal raggio d’azione: SBAM! Le porte si sono chiuse contro la macchinetta, fortunatamente non fracassandola. Poi sparisce nel nulla, sempre lentamente. La curiosità verso quest’uomo così strano scema progressivamente, fino a svanire.

Ormai si sta facendo sera e di lì a breve arriverà il nostro treno: mi attende un'altra notte in bianco? Questa volta no: nonostante stavolta non ci diano nè coperte nè mascherine nè tappi per le orecchie, dormiamo quasi normalmente. Io addirittura raggiungo le tre o forse quattro ore di sonno, poche in assoluto ma tantissime in proporzione, in ogni caso sufficienti ad un degno recupero di energie. Questo nonostante la presenza di due cani e due neonati nel vagone, i primi che contrariamente alle aspettative non si fanno sentire nemmeno con un verso per tutta la notte, i secondi che urlano spesso e volentieri, con i genitori che invece di farli smettere li incoraggiano, o almeno così ci sembra. In ogni caso non si danno molta pena a farli tacere, da perfetti maleducati.
Queste quattro orette dormite, probabilmente favorite dal sedile molto più reclinabile all'indietro dei precedenti, mi salvano la vita e rigenerano un po’ lo spirito, non credo che avrei sopportato un'altra notte quasi totalmente in bianco. La mattina successiva dovremo essere svegli e ricettivi al massimo, per prendere al volo il traghetto per le conosciute isole Lofoten. Bodø sarà solo una stazione di passaggio, non essendo un luogo di attrazione turistica se non fosse che è una delle posizioni migliori per vedere il sole di mezzanotte, sul quale ha costruito la propria fortuna. La luce notturna che si intravede di notte intorno alle tre e mezza, in un momento di veglia temporanea, mi regala altri momenti indimenticabili di meraviglia e ammirazione.

Bodø

Le foreste sterminate nei pressi di Bodø sono lo scenario che ci appare davanti agli occhi la mattina prestissimo, quando ci destiamo con largo anticipo per essere pronti a scattare verso il porto non appena messo piede a terra. Il treno supera silenziosamente il limite del Circolo Polare Artico, senza che ciò venga annunciato da alcun altoparlante, rispettoso del sonno dei viaggiatori: siamo ora nella magica terra del sole di mezzanotte e della notte polare. Superare questo confine invisibile riempie di soggezione: essere oltre il Circolo è un po’ come essere in un altro mondo. Qui si trovano gli ultimi avamposti umani prima delle gelide terre polari, e raggiungerli è un’altra emozione fantastica.
Ancora non siamo arrivati a Bodø, però. Non conosciamo nulla di questa città nè dell'ubicazione della sua stazione navale. Andiamo perciò praticamente alla cieca, sperando di prendere il traghetto della mattina, o ci sarebbe toccato quello del primo pomeriggio, che ci avrebbe fatto perdere un sacco di tempo inutilmente, bloccati in una cittadina dove non c'è veramente niente da vedere nè da fare. Oltretutto siamo in ritardo di quasi un’ora rispetto agli orari previsti, stavolta non recuperata: quell’ora fa sì che arriviamo proprio in coincidenza con l’orario teorico di partenza del traghetto. Mentre il treno si sta lentamente arrestando al capolinea assoluto delle ferrovie norvegesi, noi siamo già pronti con gli zaini in spalla, allacciati sotto la vita per scaricare meglio il peso sui forti muscoli lombari. L'adrenalina è già in corpo a dosi massicce, sapendo che abbiamo solo pochi minuti per arrivare in tempo, non sentiamo nemmeno il freddo pungente della mattina artica. Appena scesi non perdiamo un secondo: la corsa è disperata. Chieste il più velocemente possibile alcune informazioni alla ragazza che vende i biglietti in stazione, intravedo in lontananza dell'acqua, e deduco che da quella parte ci dev'essere il porto appena indicatoci. Una volta arrivati in zona però non vediamo in giro anima viva, c'è un singolo traghetto attraccato in lontananza che sembra in procinto di partire, ma non ha scritto niente sulle sue fiancate o da altre parti, da cui non possiamo sapere dove sarà diretto. Per giunta non c'è nemmeno l'accenno di una biglietteria, la situazione si sta facendo critica. Rischiando di farci investire dalle automobili che passano lungo il curvone, attraversiamo la strada e troviamo casualmente due ragazzi in motocicletta fermi davanti alla barca, unici esseri umani nel raggio di un chilometro quadrato, che stanno aspettando di salire con il loro mezzo. Gli chiediamo dove possiamo fare i biglietti, loro rispondono indicandoci vagamente una zona di costruzioni distante circa un centinaio di metri, al che corriamo ancora più veloci per fare questi fantomatici biglietti. La cintura dei pantaloni non tiene e quasi mi cadono a terra mentre aumento sempre di più la velocità, compatibilmente con il mio fiato. Arriviamo trafelati in questo complesso di baracche bianche con il tetto grigio, adibite a bar e servizi igienici, ma di biglietterie nemmeno un’ombra sbiadita. Ormai disperati, torniamo altrettanto velocemente alla nave, sperando che ci sia permesso fare i biglietti direttamente a bordo, ammesso che tale nave sia effettivamente diretta a Moskenes, il paesino a sud dell’arcipelago Lofoten. La moto dei due ragazzi si è appena accesa e sta entrando nel vano veicoli: il controllore sta per chiudere il passaggio. Riusciamo ad entrare per un pelo e a fare i due biglietti direttamente davanti al controllore, dopo aver ricevuto la conferma che la destinazione è la nostra. Mentre stiamo ancora cercando le monetine di calibro più piccolo per pagare esattamente la cifra dovuta, la piattaforma di metallo si rialza velocemente e chiude l'entrata a qualsiasi altra persona o veicolo che volesse salire.