villaggio di pescatori

 


la Playa Santo Domingo

 

Partiamo presto, salutati dalle donne che aprono all’alba i loro negozietti, perché dobbiamo prendere l’autobus che ci lascerà ad un incrocio dove passano quelli della linea Managua – Rivas.
Dopo circa un’ora di viaggio, salgono a bordo quattro transessuali, giovani, i vestiti attillati dai colori vivi, che trasportano due ceste coperte ed un cavalletto, probabilmente vanno a vendere dolci o focacce in un mercato.
Abbiamo così modo di vedere come gli altri passeggeri accolgono la loro presenza: un coro di risate, commenti pesanti ed ammiccamenti che continuano per parecchi minuti nonostante la presenza di alcuni poliziotti che anziché far smettere il clamore, sorridono divertiti.
Anche le donne, pur non partecipando direttamente, si scambiano tra loro sguardi che sanno di disprezzo e riprovazione. Le quattro poverette se ne stanno quasi accucciate in due sedili, in silenzio o scambiando qualche parola tra loro.
Questo episodio ci fa meditare su come sia difficile in un paese latino, dove il machismo è imperante, esternare la propria diversità. I quattro, con il rossetto un po’ troppo carico, lo smalto screpolato e qualche pelo di troppo, anziché sembrare sciatti o patetici, affermano dignitosamente il loro diritto alla diversità, ma la strada da percorrere è purtroppo ancora molta.
Scendiamo poco dopo ad un incrocio dove passerà l’autobus per Rivas. Il tempo che minaccia pioggia ci induce a sperimentare un altro mezzo di trasporto, che la nostra guida sconsiglia vivamente. Invece dell’autobus “di linea”, saliamo su un pulmino a nove posti dove stiamo in quindici stretti come sardine, con gli zaini quasi in bocca e lanciati a forte velocità sulla strada dissestata. Questi pulmini sono più veloci dei bus, in genere percorrono gli stessi itinerari, ma sono pericolosissimi proprio a causa della forte velocità e del numero elevato di passeggeri di cui sono letteralmente stipati. Un italiano incontrato successivamente ci dirà che i frequenti incidenti stradali causati da questi mezzi provocano delle vere e proprie stragi. Per nostra fortuna senza problemi, arriviamo a Rivas verso mezzogiorno e un tranquillo taxi ci porta al molo dove ci dovremo imbarcare per l’isola di Ometepe.
Facciamo in tempo a pranzare in un rustico comedor prima di prendere il lento battello di legno che sbuffando (e non è una concessione letteraria), dopo un ora di navigazione ci porta sull’isola, nella cittadina di Moyogalpa.
Nella lingua degli indios che per primi la abitarono, Ometepe significa “due montagne”, con riferimento ai due vulcani che la formano, uno dei quali, il Concepcìon, ancora attivo. E’ anche l’isola lacustre più grande al mondo.
Quasi tutto il suo territorio è stato dichiarato zona protetta e sono stati istituiti ben quattordici parchi naturali, la flora tropicale è rigogliosissima e la fauna comprende oltre al resto, le inquietanti scimmie urlatrici, diverse specie di pappagalli e il mot-mot, l’elegante uccello blu dalla lunga coda simbolo del Nicaragua.
Sperimentando la cattiva qualità dell’unica strada che percorre tutta l’isola formando un otto, arriviamo un’ora dopo ad Altagracia, dove ci sistemiamo in pieno centro, all’hotel Castillo che per 10 dollari ci fornisce camera con due letti matrimoniali, bagno e ventilatore, un discreto ristorante dai prezzi modici e la connessione internet che ci permette di comunicare con i nostri familiari in attesa di notizie.
La cittadina è piccola e tutta concentrata intorno al parco centrale, dove maialini scuri e pelosi pascolano tra un’altalena e gli scivoli arrugginiti, e alla bella chiesa in legno nel giardino della quale vi sono, quasi sul ciglio della strada due grandi statue precolombiane che rendono il luogo surreale. La loro collocazione ci sembra un po’ strana, è come se due preziose statue romane fossero situate ai bordi di un qualunque incrocio, ma sembrano resistere egregiamente alle intemperie.
Questa isola meriterebbe sicuramente una visita approfondita, perché le escursioni da fare sono molte ed interessanti, l’ascesa alla cima dei vulcani, la passeggiata nella giungla per arrivare ad una cascata, la ricerca di petroglifos, i disegni incisi sulle rocce in epoca precolombiana ecc.
Noi, con i ragazzi poco inclini alle camminate, riusciamo soltanto a fare una visita alla Hacienda Magdalena, una grande fattoria che funziona come una comune, nata ai tempi della rivoluzione, dove si possono fare escursioni alle piantagioni di cacao e di caffè, gite a cavallo in cerca di antiche iscrizioni e dove si può anche pernottare in pittoresche camerate. La siesta dopo pranzo sulle amache sotto un porticato ci ritempra in compagnia di colibrì, pappagalli e mot-mot, mentre una pacifica scolopendra che se ne stava tornando a casa è costretta a fare una lunga escursione nel patio in compagnia di Tommy… 
Dedichiamo un po’ di tempo anche ai bagni, dopotutto siamo su un isola, così scopriamo la bellezza di playa Santo Domingo, larga e ornata da una vera e propria foresta di palme dove incessanti si sentono le grida dei pappagalli.
Nel pomeriggio una grossa mandria di bovini viene ad abbeverarsi nelle acque del lago a qualche decina di metri da noi, l’atmosfera è magica.
Il giorno successivo siamo costretti a cambiare i nostri piani al volo, infatti vorremmo proseguire fino all’estremo sud del paese, a San Carlos, ma l’unico battello che fa servizio da Ometepe parte il giovedì, tra due giorni, e non avendo abbastanza tempo a disposizione decidiamo di andare intanto a Granada, la città coloniale meglio conservata del Nicaragua che si trova verso nord.
Ormai, da veri esperti ci muoviamo nell’intricato sistema dei trasporti locali e dopo circa due ore suddivise tra barca, bus e taxi arriviamo in questa città che si affaccia sul lago de Nicaragua ai piedi del vulcano Mombacho ormai spento, ma che in tempi antichi con una sua immane eruzione pare abbia creato le oltre 350 isolette che sorgono di fronte ad essa, alcune delle quali sono state usate per le riprese del film “Il mondo perduto” di Spielberg.
Importante centro mercantile prima dell’apertura del canale di Panama, Granada ricca e sfarzosa è stata più volte assaltata da corsari del calibro di Henry Morgan fino a diventare territorio indipendente sotto il filibustiere William Walker che la occupò finché, nel 1854, fu costretto a fuggire mettendola a ferro e fuoco, tanto che le facciate delle chiese ancora oggi sono annerite dal fumo.
Oltre al primato economico e commerciale, la città vanta una notevole vivacità culturale, è qui infatti che negli anni venti nasce il movimento letterario “Vanguardia” e molti poeti e scrittori, tra tutti Ernesto Cardenal, sono granadesi.
Oggi è una piacevole e tranquilla cittadina, la terza del paese, con il suo Parque Central, gli edifici pubblici in stile neoclassico o tipicamente coloniali ben tenuti, la Cattedrale all’interno della quale si può vedere una della rare rappresentazioni di Dio in persona, con tanto di aureola triangolare.
Dalla piazza parte la Calzada, il viale che arriva fino al lago, dove sono concentrati tutti gli alberghi economici e i ristoranti migliori.
Proprio lì, a due passi dalla piazza, troviamo l’hotel Cocibolca, 14 dollari a camera, grande patio interno con giardino, internet e ottima cucina.
Oltre ai soliti giri in città, faremo da qui una escursione a Masaya, il centro artigianale dove si possono trovare a buon prezzo manufatti in terracotta, legno e pellame provenienti da tutto il paese.
Una mattinata la dedichiamo alla navigazione tra le isolette e scopriamo che molte sono state acquistate da privati che vi hanno costruito amene villette per il relax. Una intera isola di mezzo chilometro quadrato, ci spiega il barcaiolo che ci accompagna, costa poco più di 30mila dollari, cifra irrisoria per noi, ma completamente fuori della portata del 95 per cento dei nicaraguensi.
Purtroppo, per problemi di tempo, dobbiamo rinunciare a visitare una delle isole più belle, Zapatera, dove sono concentrate le tracce delle civiltà precolombiane che la ritenevano luogo sacro. 
La sera facciamo la conoscenza con Don Luca, proprietario dell’omonimo ristorante a due passi dall’albergo, un ingegnere italo-svizzero convertitosi in pizzaiolo.
Normalmente, il connubio Italia/Svizzera in cucina non mette certo l’acquolina in bocca, ma noi dobbiamo ringraziare Luca per averci rimpinzato di ottimi spaghetti (Barilla) al ragù e di vera pizza cotta nel forno a legna.
In questo locale si respira inoltre un’atmosfera cosmopolita resa ancor più piacevole dalla cordialità del personale.
Insomma, va tutto bene fino alla serata della festa in piazza.
Quella sera, notando un certo movimento e sentendo musica latina, c’imbattiamo in una cena in piazza con tanto di palco e musica dal vivo. Subito approfittiamo dell’occasione per partecipare al divertimento locale e prendiamo un tavolo dove ceniamo con i piatti tipici (gallo pinto, pollo rostizado, tortillas, platanitas ecc.) preparati in barbecue all’aperto.
Tommaso, come sempre alla ricerca di animali, finalmente subisce la loro giusta vendetta, infatti tutto preso a scompaginare una fila di formiche, non si avvede di aver messo un piede sul formicaio stesso e, in un attimo ha una gamba invasa dalle bestiole, piccole ma estremamente mordaci, come anch’io avrò modo di constatare alcuni giorni dopo.
Piangente e scioccato dal vedersi “invaso” corre al nostro tavolo dove lo liberiamo e lo confortiamo, cosicché, poco dopo, di nuovo baldanzoso, decide di andare a vedere da vicino i musicisti.
Proprio mentre questi eseguono “Nicaragua, nicaraguita”, praticamente la “Romagna mia” locale, il vispo frugoletto, nell’atto di arrampicarsi sulla struttura del palco per vedere meglio, come facevano altri bambini, aggancia con un sandalo il cavo di uno dei due fari dell’illuminazione, che cadendo a terra si disintegra.
Quasi tutto il palco al buio, la musica si interrompe tra lo sconcerto generale, mentre l’autore del misfatto corre a nascondersi tra le mie gambe.
Vista l’impossibilità di riparare la lampada e non avendo un ricambio, si decide di continuare con un unico faro, raggruppando i suonatori al centro del palco in modo che possano vedere gli spartiti.
Interviene anche la polizia che fa allontanare tutti di alcuni metri per proteggere l’unica lampada rimasta.
Dopo la movimentata serata, il giorno dopo facciamo un’escursione nel paese di montagna di Catarina, dal quale si scopre un panorama mozzafiato del lago con le isolette e la bocca del vulcano.
Dobbiamo però rinunciare definitivamente a visitare San Carlos e le isole Solentiname, perché l’unico aliscafo che faceva servizio sul lago, rottosi il motore anni fa, non è stato mai riparato né sostituito.
Questo la dice lunga sull’organizzazione e le potenzialità economiche di questo paese, che a causa di un guasto meccanico lascia quasi abbandonato uno specchio d’acqua che copre un quinto del proprio territorio e collega l’estremo sud al resto della nazione.
Con grande rammarico per non poter visitare una zona a cui tenevamo molto, centro artistico del paese dove è cresciuta la scuola di Ernesto Cardenal, decidiamo di raggiungere la capitale e da lì, prendere un volo interno che ci porterà ai carabi, sull’isola di Corn Island.

 


Granada – il Parque Central

 

Due sono le compagnie aeree che fanno servizio da Managua a Corn Island, la Costeña e la Atlantic Airways, entrambe con piccoli aerei mono o bi-elica, entrambe con ufficio all’aeroporto, entrambe con un vociante procacciatore di clienti sul piazzale antistante le partenze nazionali, i quali, entrambi si avventano su chiunque capiti da quelle parti con una valigia in mano.
Assediati dai due imbonitori, allettati con proposte di sconti e accalorate assicurazioni di avere aerei migliori, scegliamo la Costeña, il cui volo parte mezz’ora prima dell’altro.
Il costo del passaggio fino all’isola per noi quattro e ritorno con data aperta, si aggira sui 350 dollari, che paghiamo con carta di credito senza difficoltà e senza le famigerate commissioni.
Poco prima della partenza, al check-in veniamo anche pesati e dopo aver pagato la tassa di 5 dollari a testa, saliamo su un piccolo monomotore da quattordici posti e partiamo verso est.
Il volo dura poco più di un’ora, durante la quale sorvoliamo la parte centrale del paese, in gran parte ricoperta da una fitta vegetazione e piuttosto desolata.
Un altro modo per raggiungere la costa atlantica, è prendere un autobus che in 12 ore arriva fino a El Rama da dove ci si imbarca su una lancia che via fiume raggiunge Bluefields sulla costa, da dove si arriva a Corn Island in battello.
Il costo totale del viaggio è di 15 dollari a persona, ma va affrontato da viaggiatori particolarmente avventurosi e senza bambini.
Arriviamo quindi nel primo pomeriggio, atterrando su una pista in parte erbosa che attraversa tutta l’isola, dove i locali passeggiano o vanno in bicicletta come se fosse una via del centro. Appena fuori dall’aeroporto (una baracca di lamiera con una scrivania per le compagnie aeree e un’altra per il funzionario dell’immigrazione), incontriamo un ragazzo italiano in partenza che ci dà alcune dritte sulle possibilità di sistemazione.
Corn Island, ex rifugio di pirati, contornata da baie sabbiose che compongono i suoi cinque chilometri di spiagge, è oggi abitata da circa 2500 persone, in gran parte neri garifuna discendenti degli schiavi africani fuggiti o naufragati durante il trasporto in nave.
Gli abitanti preferiscono parlare l’inglese caraibico, dalla cadenza musicale; sembra così di essere lontani migliaia di chilometri dal resto del Nicaragua, un po’ come accade a Livingston, in Guatemala, dove si respira la stessa atmosfera di frontiera.
In realtà le isole sono due, a poche miglia dalla sorella maggiore, detta La Isla Grande, c’è Little Corn Island, la Islita (l’isoletta) dove vivono appena 350 persone e non ci sono strade, ma solo viottoli che si inoltrano nella giungla che la ricopre interamente, per raggiungere spiaggette amene ed angoli con viste meravigliose che mi fanno ritornare alla memoria i libri di avventure letti da ragazzino come “L’isola del tesoro” e “Robinson Crusoe”.
Quei luoghi, solo immaginati durante la lettura, ora li ho davanti agli occhi e…ci sono in mezzo!
Avendo dovuto tagliare dal nostro itinerario l’estremo sud del paese, abbiamo quasi cinque giorni da trascorrere sulle spiagge, per cui ci troviamo subito una buona sistemazione.
Ai tropici i venti soffiano sempre nella stessa direzione, quindi abbiamo una costa settentrionale rocciosa battuta dal vento, perfetta per i surfisti, mentre la parte meridionale ha spiagge sabbiose, acque poco profonde e mare sempre calmo, perché sottovento.
Qui la zona più bella è Picnic Beach, una baia da cartolina contornata da palmizi dove, direttamente sulla spiaggia, ci sistemiamo al Picnic Center, una tipica costruzione caraibica in legno tra le palme da cocco, al costo di 30 dollari per una grande camera con aria condizionata.
Anche qui siamo gli unici turisti e per un paio di giorni ci godiamo questo paradiso tutto per noi.
Le vacanze dei nicaraguensi si concentrano nel periodo della settimana santa, durante il quale l’isola è presa d’assalto e per trovare posto sui voli e negli alberghi bisogna prenotare con mesi di anticipo. Nel resto dell’anno si incontra al massimo qualche coppia di turisti europei o americani, con gli zaini in spalla.
Non c’è neanche una vita notturna ad eccezione di un paio di rustiche balere dove si suona musica reggae, sconsigliate perché teatro di frequenti risse tra i giovani, alimentate dalle abbondanti bevute del forte rum distillato artigianalmente.
La vita sull’isola si svolge lentamente, tutti sembrano passeggiare indolenti senza una meta precisa, sull’unica strada sterrata piena di buche alcuni taxi girano incessantemente a passo d’uomo e scopriamo che la tariffa è unica, 10 cordobas, meno di un dollaro, sia per fare cento metri che per essere trasportati da un capo all’altro, coast to coast .
Il nostro albergo è l’unica costruzione della zona, così la prima sera, tra l’altro senza cena a causa di un equivoco sull’orario del ristorante, rimaniamo un po’ sconcertati dalla solitudine del luogo e mangiando scatolette seduti sui gradini, ipotizziamo assalti notturni di indigeni armati di machete e la nostra imminente fine prematura. Grossi granchi grigi escono come fantasmi dalla sabbia e illuminati dalla torcia elettrica ci mostrano minacciosamente le chele.
Il mattino dopo ci trova ancora in vita e, rincuorati dall’abbondante colazione, osserviamo il rientro delle barche dalla pesca delle aragoste.
Trascorriamo così due giorni praticamente sempre in costume da bagno, con l’unica incombenza di spruzzarci ogni tanto di Autan, per allontanare i sandflies, specie di moscerini fastidiosissimi, che fanno la loro comparsa nel pomeriggio.
Ci nutriamo a base di dentici alla griglia e di aragoste che sono presenti sui menù di tutti i ristoranti allo stesso prezzo del pollo (5 dollari).
Mentre mia moglie ed io diamo fondo agli ultimi libri portati da casa, Tommaso trascorre la maggior parte del tempo in acqua cercando conchiglie oppure giocando con gli animali del proprietario dell’hotel, il quale un pomeriggio lo porta addirittura con sé nella giungla facendogli tenere il suo machete.
Dopo un po’ il piccolo torna trionfante avendo ricevuto una noce di cocco in pagamento per il suo “lavoro”…
Mattia, il cui principale interesse sembra essere l’orario del pranzo, ha un barlume di vitalità quando conosce una ragazza della sua età con la quale tenta di comunicare col suo incerto spagnolo, scoprendo che, seppur originaria dell’isola, da alcuni anni…vive a Bergamo! 
La nostra indole nomade ci spinge ancora a muoverci, così decidiamo di passare un giorno sull’Islita, che raggiungiamo con mezzora di barca e dove ci sistemiamo in un bungalow in mezzo alla vegetazione tropicale dell’hotel Casa Iguana, tenuto in maniera impeccabile da due simpatiche americane che lo gestiscono insieme ai mariti che si occupano di pesca ed immersioni.
Little Corn Island è talmente piccola che si esplora tutta a piedi ed è particolarmente indicata per gli appassionati di pesca d’altura e subacquea, le spiagge invece sono piuttosto rocciose e battute costantemente dal vento.
Ritornati a Picnic Beach per l’ultimo giorno di mare, troviamo l’albergo animato dalla presenza di una decina di turisti con i quali dobbiamo condividere la “nostra” spiaggia.
Passiamo la serata a chiacchierare davanti ad una birra e conosciamo così Alex, l’unico italiano residente, proprietario di un piccolo hotel, “La Princesa de la Isla”, approdato qui una decina di anni fa e mai ripartito, come Paula, un’altra italiana che gestisce un ristorantino sulla spiaggia a Little Corn Island.
L’indomani noi invece riprenderemo il volo per Managua per proseguire poi per l’Italia.
Passiamo l’ultima notte nella capitale, all’hotel Los Felipe dove ritroviamo Danièl, che ci sembra cresciuto rispetto a venti giorni prima e che, forse contento di rivederci, si lascia addirittura fare i grattini sulla pancia.
Il mattino successivo, andando all’aeroporto, ci scorrono davanti agli occhi attraverso i finestrini di un taxi, le ultime immagini del Nicaragua, strade già trafficate, bancarelle che riaprono, venditori di giornali, studenti in divisa, insomma, niente di trascendentale, ma saranno proprio queste che ci ritorneranno in mente nei primi giorni un po’ surreali, del rientro a casa.

 


isletas a Granada

 


una spiaggia a Corn Island


Tommaso con una preda…

 

FINE

Claudio